a cura di don Ezio Del Favero

46 – I tre laghetti di montagna

Da quel giorno, nei luoghi dove la giovane si era fermata, rimasero tre laghetti di colore diverso....

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Due giovani fratelli di una valle montana erano soliti portare le loro mucche a brucare l’erba sugli alti pascoli sovrastanti il borgo dove vivevano. Talvolta scendevano a valle per portare i prodotti dell’alpeggio e per fare rifornimento di viveri e vettovaglie.

Durante le loro discese in paese dai pascoli, i due fratelli conobbero la figlia di un ricco notabile locale, bellissima quanto capricciosa, ed entrambi se ne innamorarono.

Ogni volta che incontrava i due giovani, la crudele ragazza si prendeva gioco di loro, li scherniva e li umiliava sottoponendoli a impossibili prove d’amore, con la scusa che chi avesse vinto l’avrebbe conquistata e poi avuta in moglie.

Avendo esaurito il repertorio di sfide, un giorno la giovane capricciosa s’inventò che avrebbe sposato chi dei due fratelli fosse riuscito a raggiungere la più ardita vetta della catena montuosa. Così, pieni di speranza, i due giovani caddero nell’ennesimo tranello e partirono alla volta della cima della montagna, ma da essa non fecero più ritorno. Amici e parenti li cercarono per giorni e giorni, invano; sembrava che la montagna li avesse inghiottiti.

Per quanto in ritardo, anche nel cuore apparentemente insensibile della figlia del ricco notabile si aprì una breccia e, presa dal rimorso, la ragazza decise di partecipare alle ricerche dei due fratelli scomparsi in montagna. Raggiunti gli ameni alti pascoli, la giovane s’inerpicò lungo un ripido e desolato vallone per giungere con gran fatica sui ripiani sassosi dell’alto circo della valle, dove oggi si trova il primo di tre laghetti. Da quella posizione rivolse lo sguardo verso la cima della montagna che avrebbe dovuto essere scalata dai due giovani e per ore e ore li chiamò, ma invano.

Sentendosi sempre più colpevole del suo crudele capriccio, la ragazza cominciò a piangere, versando copiose lacrime, ma non si diede per vinta. Proseguì fra le vaste pietraie salendo ancora, per poi fermarsi e invocare di nuovo il nome dei due ragazzi, ma ancora una volta invano. Prostrata sulle pietre, s’abbandonò di nuovo a un pianto disperato e ancora una volta riprese la salita sperando di vedere i due fratelli comparire oltre l’ultima balza. Invece, anche dietro l’ultima barriera, le si aprì il desolato paesaggio di sconfinate pietraie e allora capì che ogni speranza era perduta e cadde sfinita dal dolore piangendo le sue ultime lacrime.

Da quel giorno, nei luoghi dove la giovane si era fermata, invocando invano e piangendo copiose lacrime, rimasero tre laghetti di colore diverso. Il primo nero come il lutto; il secondo verde – più grande a causa delle abbondanti lacrime versate – dello stesso colore degli occhi della ragazza; il terzo, più piccolo, azzurro come il cielo nel quale si era sciolto il suo pentimento. Inoltre, la roccia di tutte montagne della zona assunse un color rosso intenso in ricordo del sangue dei due fratelli caduti…

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La parabola è stata raccolta in Valmalenco, in Lombardia. Si tratta di un racconto “eziologico”, ovvero di una leggenda popolare che cerca di spiegare la ragione di fatti del passato dei quali non si è in grado di fornire una spiegazione scientifica.

In effetti, in quella Valle, davanti al Pizzo Cassandra (una montagna alta 3.226 metri delle Alpi del Bermina), dove la parabola presume siano scomparsi i due fratelli, si trova una cima con due punte, che i montanari del luogo chiamano i Giumelin, i Gemellini.

Per quanto riguarda i tre laghetti, in quella conca di rocce e pietraie ancora oggi si possono osservare i laghetti di Sassersa, di vari colori, tra cui spicca il colore azzurro, che qualcuno paragona a gioielli incastonati nella roccia rosso sangue.

La parabola, pur con un epilogo triste, trasmette dei significati profondi che vanno oltre le semplici pietre.

Walter Bonatti: «Le montagne non sono che il riflesso del nostro spirito, hanno quindi il valore dell’uomo che le ama e vi si misura, altrimenti non rimangono che sterili mucchi di pietre».