Domenica delle Palme e della Passione

La “bella no­tizia” narra il patire di un Dio appassionato

a cura di don Renato De Vido

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È l’unico vangelo di tutto l’anno liturgico che non è introdotto dal saluto e dalla formula consueta: «Il Signore sia con voi… Dal vangelo secondo…». No. Solo un enunciato molto più cadenzato e solenne: Passione di nostro Signore Gesù Cristo.

Un motivo di deve pur essere. Lo troviamo qui: è il cuore, è il racconto di questo lungo dolore che si è addossato sulla persona di Gesù. La «bella no­tizia», che è il vangelo, in realtà narra una morte, il patire di un Dio appassionato, di una persona che, passando tra le morse della follia omicida, resta vincitrice per il grado di amore che preserva nei confronti di chi non la vuole, non la vuole proprio.

1. Su questo paradosso Paolo Apostolo centra il suo annuncio: «Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al sopra di ogni nome, perché ogni ginocchio si pieghi». Solo inginocchiati davan­ti alla croce possiamo dire chi è Dio. Sulla cro­ce il male raggiunge la sua massima intensità: riesce ad uccidere l’autore della vita. In quell’even­to Dio si nasconde e si esprime: in lui si condensa tutto il male del mondo, e quel male viene sconfitto solo portandolo.

Proviamo a dircelo in altra maniera. Il nostro Dio è diffe­rente. «Scendi dalla croce», gri­davano. Qualunque uomo, qualunque re, se potesse, scenderebbe dalla croce. Solo un Dio non scende dal legno. È il Dio che si immerge nell’oscu­rità e nel grido della nostra morte, che vince morendo. Ma se scende, vin­ce ancora la logica del vec­chio mondo, vince chi ragiona in termini di potenza. Se scende, è solo un Signore onnipotente. Invece egli è altro, è un Amore onnipo­tente. Gesù è disposto a morire per mostrare la verità dei suoi gesti. Morire per mostrare ad ogni uomo chi è veramente Dio.

All’ora no­na finiva un mondo e ne nasceva un altro.

2. Siamo talmente abituati alla morte di Dio, talmente riempiti di riflessioni e meditazioni, e stanche prediche sulla salvezza, da avere tutto chiaro, tutto colto, tutto imparato. Non ci serve null’altro. Al più qualche emozione resa possibile dalle nuove tecniche, dalla modernità e dai prodigi della tecnica, una cruenta passione come quella di Gibson, ma nulla di più.

E assistiamo ancora una volta al dono di Dio come se fosse una cosa dovuta, un evento banale, quasi abitudinario, presente ma debole, scontato ma inutile.

Peggio: ci fermiamo alla crosta, ascoltiamo e diciamo parole di cui non conosciamo veramente il significato.

Gesù è morto per noi. E nessuno sente il bisogno di salvezza.

Egli è morto per i nostri peccati. E noi stiamo attenti a sottolineare i peccati degli altri.

Ha donato se stesso. E non sappiamo che farcene di questo dono.

Avessimo il coraggio di tornare a quei giorni, di riviverli, di lasciarci interrogare e scuotere! Avessimo il coraggio di perforare i Vangeli, di toglierli dalla patina di incenso che li avvolge! Altro è predicare, altro pendere da una croce. Altro convincere o fondare una religione, altro restare appesi fino ad esalare l’ultimo respiro.

Il suo amore ci salva, non il suo dolore. Un amore che manifesta, che mette a nudo, che scuote e stupisce. La croce diventa, allora, l’ultimo detto al Padre. E all’uomo.

L’ultimo tentativo, gravido e fecondo, di manifestare Dio. Capirà l’uomo? Capiremo?