A cura di don Giorgio Aresi (3ª domenica di Quaresima - anno C)

L’aiuto di una rivelazione divina

La cura di un Dio che si fa vicino a una umanità ferita e oppressa

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Platone è un nome che qualcuno dirà sicuramente qualcosa; forse è il più grande filosofo antico, il nome più importante della filosofia greca. Vissuto 300 anni prima che nascesse Gesù Cristo, non era ebreo… e nemmeno cristiano, ovviamente. E in uno dei suoi Dialoghi a un certo punto scrive queste parole:

«Mi sembra, Socrate, e forse sarai anche tu del mio parere, che essere così sicuri su certe questioni, sia una cosa impossibile o, per lo meno, molto difficile, almeno in questa vita; d’altronde, io penso che il non esaminare da un punto di vista critico le cose che si son dette, il lasciar perdere il problema, prima di averlo indagato sotto ogni aspetto, sia proprio dell’uomo dappoco; quindi, in casi simili, non c’è altro da fare: o imparare da altri, come stanno le cose, o trovare da sé, oppure, se questo è impossibile, accettare l’opinione degli uomini, la migliore s’intende, e la meno confutabile e con essa, come su di una zattera, varcare a proprio rischio il gran mare dell’esistenza, a meno che uno non abbia la possibilità di far la traversata con più sicurezza e con minor rischio su una barca più solida, cioè con l’aiuto di una rivelazione divina» (Platone, Fedone, XXXV).

Nessun uomo nella storia e nella propria vita, che prenda in seria considerazione le domande fondamentali sul senso della vita stessa non può – in un atto coraggioso di onestà intellettuale ed esistenziale – rifiutare di mettersi di fronte anche alla semplice ed elementare ipotesi di una rivelazione di Dio nel mondo, come risposta alle domande fondamentali dell’umano esistere. Sì, l’esistenza umana, vissuta come ricerca, può farti trovare di fronte alla possibilità che il desiderio di Dio dell’uomo, l’uomo di fronte al Mistero, incontri la possibilità che Dio stesso si riveli, si manifesti e si faccia incontro all’uomo.

Ecco, di fronte alla parola del “Testo sacro”, dall’Antico Testamento sino all’ultimo degli Apostoli, noi ci troviamo di fronte a un’ipotesi che diventa realtà, esperienza vera nella fede. Per quanto l’uomo possa cercare di dare un senso alla parola “Dio”, l’uomo, cercatore di Dio, incontra Dio che si mostra e si rivela per quello che è veramente, nella sua natura più vera e profonda. Possiamo aprire gli occhi, con il dono della fede, su Dio.

Ed è quello che possiamo fare di fronte alla Parola in questa Terza Domenica di Quaresima. La Prima Lettura: il passaggio fondamentale, nel racconto del libro dell’Esodo, della rivelazione di Dio. Il Signore a Mosè:

«Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele» (Es. 3,7-8).

Ho ascoltato la tua preghiera, ho visto le tue lacrime, libererò questo popolo. In questi verbi c’è tutta la cura di un Dio che si fa vicino a una umanità ferita e oppressa. Un Dio vicino all’uomo, un Dio profondamente umano. Ed è nel rivelare il proprio nome, che Dio manifesta il suo volto più vero: Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!» (Es. 3,14).

Il significato di questa espressione esprime la realtà intima di una “relazione”. Dio non è un’idea, un concetto, un’energia vaga, un sentimento indefinito di infinito vago. No, Dio è realtà personale che entra in relazione con l’uomo. Dio è rivelazione di amore; il volto del Padre che Gesù ci ha rivelato in modo definitivo e pieno, senza bisogno di altro. Sì, allora la Rivelazione ci mostra questo, allora la relazione con Dio non è un’illusione, un’ipotesi, ma una realtà da vivere. Certo, una relazione domanda tempo, pazienza, attesa, fatica, come ci racconta il vignaiolo del Vangelo:

«Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Tàglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”» (Lc 13,6-9).

La relazione con Dio domanda la fatica e la pazienza dell’attesa e del desiderio, e nello stesso tempo la bellezza di conoscere, amare e fidarsi proprio di Lui. Conoscere Dio, per amarlo e fidarsi di lui. Ma è possibile? C’è una testimonianza, un gesto imponente che ci dice che è possibile, ed è un gesto che rimarrà impresso nel cuore di ogni uomo, credente o no: quello di Benedetto XVI nel 2013. Le sue parole pronunciate nell’ultimo Angelus, domenica 24 febbraio 2013, sono parole che ci fanno capire che ad ognuno di noi è possibile entrare in questa relazione con Dio. Quel giorno ci affidava queste parole:

«Il Signore mi chiama a “salire sul monte” […] Ma questo non significa abbandonare la Chiesa, anzi, se Dio mi chiede questo è proprio perché io possa continuare a servirla con la stessa dedizione e lo stesso amore con cui ho cercato di farlo fino ad ora, ma in un modo più adatto alla mia età e alle mie forze» (Benedetto XVI, Angelus, 24 Febbraio 2013).

Dio ha parlato al cuore di Joseph Ratzinger (Benedetto XVI): tra quell’uomo – ora pellegrino, che percorre l’ultima tappa del suo pellegrinaggio su questa terra – e Dio c’è stato un dialogo. Ognuno di noi, in fondo, può vivere nella sua vita questa stessa esperienza: perché Dio non può non parlare anche al mio cuore.