A cura di don Alessandro Coletti (16ª domenica del tempo ordinario - anno B)

L’arte di prendersi cura

«...perché sei un essere speciale ed io avrò cura di te»: per Dio, ciascuno di noi è un essere speciale

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«Non bisogna avere paura di bontà e tenerezza»: così diceva papa Francesco in una delle sue prime omelie da pontefice. Ce lo insegna il Vangelo, ce lo dicono le letture di oggi. Dio è il buon pastore, colui che ama il suo gregge, conosce le pecore ad una ad una e le chiama per nome. I discepoli tornano da Gesù…. Questa prima esperienza di missione è stata per loro entusiasmante ma molto faticosa. Rifiuti e incomprensioni, gioie e miracoli, persone incontrate, dialoghi, mani strette, chilometri macinati. E il Signore si fa loro prossimo con l’affetto di un padre. «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto e riposatevi un po’». Il Signore si prende cura di noi! Dio sa che siamo deboli, siamo fragili. Come sulle etichette o sugli scatoloni. Quando contengono materiale delicato, portano scritto: «Fragile. Maneggiare con cura». Anche sulla nostra natura umana è “impressa” una scritta simile.

C’è una bella canzone di Franco Battiato che si intitola proprio “La cura”. Dice: «Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie, dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via. Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo, dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai». È vero la nostra vita è fatta anche di turbamenti, di ingiustizie, di inganni, di fallimenti… fa parte della nostra natura. Ma il Signore ci è a fianco, ci protegge, ci aiuta a rialzarci. E la canzone si conclude dicendo: «Ti salverò da ogni malinconia, perché sei un essere speciale ed io avrò cura di te… io sì, che avrò cura di te». Per Dio, ciascuno di noi è un essere speciale. Dio non conosce la produzione in serie, siamo tutti pezzi unici, inimitabili. Ed è per questo che non possiamo sprecare la nostra vita: perché se noi non usiamo delle potenzialità che abbiamo non ci sarà nessun sostituto che possa realizzare la nostra missione, la nostra vocazione.

Allora prendiamoci anche noi cura… Possiamo farlo almeno in tre direzioni:

1. Prendiamoci cura di noi stessi. Curiamo la nostra crescita la nostra spiritualità, il nostro riposo anche. Trovo tanta gente, soprattutto giovani che dicono di non credere. Poi ci si parla insieme perché, di solito, in fondo, hanno anche voglia di sapere, di conoscere e ci si rende conto che su Dio, sulla Chiesa, sulla fede non sanno quasi nulla. Fisicamente sono cresciuti perché hanno mangiato bene ma spiritualmente sono rimasti piccoli. Le domande sulla fede cambiano ma tanti non si prendono il tempo di trovare risposte confacenti all’età…. Sarebbe come se pretendessi di saziarmi bevendo dal biberon o con gli omogeneizzati…. Vogliamoci bene allora. Prendiamoci cura di noi stessi in tutte le nostre realtà: fisico e spirito. Qualche buona lettura, qualche esperienza forte di fede, qualche occasione di preghiera vissuta più in profondità sono tutti modi per prendersi cura di noi.

2. Prendimoci cura del Creato. Del mondo che ci circonda. Nel grande e nel piccolo. Papa Francesco ci ha donato la sua seconda enciclica proprio su questo tema: sulla cura della casa comune. «La violenza che c’è nel cuore umano ferito dal peccato si manifesta anche nei sintomi di malattia che avvertiamo nel suolo, nell’acqua, nell’aria e negli esseri viventi». Con un neologismo, papa Francesco parla del fenomeno di rapidizzazione, intendendo l’intensificazione continua dei ritmi di vita e di lavoro. “Prendersi cura” invece richiede tempo, pazienza. Siamo responsabili del mondo che ci circonda. Tutto possiamo compiere piccoli gesti di attenzione, di amore per il creato.

3. Terza e ultima dimensione: prendiamoci cura dei nostri fratelli. Il prendersi cura dei fratelli, l’avere a cuore le altre persone sono segnali importanti della condizione della nostra fede. È un segno importante della nostra capacità di convertirci. La nostra prontezza nel mettersi a servizio degli altri, specie delle categorie più deboli, è una buona cartina tornasole della nostra apertura a Cristo. Per aiutare gli altri però dobbiamo fare posto in noi, liberarci dall’egoismo, dal nostro desiderio di indipendenza a tutti i costi.

Condivido questa immagine da un monaco camaldolese: dobbiamo essere come una chitarra. Tutti abbiamo in mente la loro forma. Sappiamo che essa possiede un interno, un corpo spazioso che rimane invisibile agli occhi: è la cassa di risonanza. È uno spazio che lascia passare le onde sonore, le dilata, le restituisce forti e musicali, si lascia attraversare dal flusso dell’energia sonora, accoglie ogni suono singolare e gli permette di fiorire, gli consente di mettere ali e di volare, di intrecciarsi con altri suoni. Immaginiamo adesso di fare delle palle di carta e di riempire questo vuoto. Che cosa accade? Se pizzichiamo le corde i suoni sordi: muoiono sul nascere. Potremmo considerare la nostra attenzione all’altro, a chi entra nelle nostre comunità, a chi ci chiede una mano, come la cassa di risonanza di questa chitarra. Sappiamo essere uno spazio vuoto e accogliente, pronto a farsi inondare dal mistero dell’altro, a lasciarlo esprimere la sua unicità di suoni, dissonanti magari, senza soffocarne la vibrazione nell’ovatta delle nostre certezze? Dobbiamo accettare di essere stanza vuota… Senza molte certezze ma con la volontà di farsi vicino all’altro, di fargli posto nel nostro cuore e nella nostra vita. È meno efficace forse essere una stanza aperta, uno spazio vasto, pronto a farsi abitare, piuttosto che uno schedario ingombro di convinzioni, giudizi affrettati, manuali d’uso, casellari dell’umanità?

“Prendiamoci cura” allora. E facciamo diventare “abitudine” buona questa nostra decisione. Facciamoci caso: le persone capaci di importanti gesti di cura, quando spiegano i motivi del loro agire, forniscono risposte di rara semplicità: “Ho fatto il mio dovere; Chiunque avrebbe fatto lo stesso; Non c’era altro da fare”…

Ci aiuti il Signore, buon pastore, a crescere nell’amore per noi, per il mondo e per gli altri!