Testimonianza dal viaggio in Marocco

Pellegrinaggio di dialogo con l’Islam

Dal 23 al 30 aprile, guidato dal vescovo Renato

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39 i partecipanti al pellegrinaggio diocesano di dialogo con l’Islam, organizzato dalla diocesi di Belluno-Feltre con la Comunità islamica bellunese e il Movimento dei Focolari. Promosso dall’Ufficio diocesano per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso con il supporto di don Massimiliano Zoccoletti, il viaggio è partito da Belluno martedì 23 aprile alla volta di Fes, con il Vescovo Renato Marangoni e l’Imam della provincia Hassan Frague.

A Fes nell’università Al Qarawiyne

Di fronte ai pellegrini, su un tavolo, sono i testi di Averroè (nel senso che sono stati scritti di proprio pugno da quel filosofo, la cui figura è ben presente anche nei manuali di filosofia che si studiano in Occidente); un Corano scritti su pergamena; il più antico Vangelo scritto in lingua araba (nell’ottavo secolo, in cui tutti i capitoli, sia dei sinottici che di Giovanni, iniziano «nel nome di Dio clemente e misericordioso» come le Sure del Corano); tutto ciò fa capire che i partecipanti sono stati accolti nella biblioteca più antica al mondo dopo quella di Alessandria d’Egitto, ora distrutta, e nell’università più antica al mondo, cioè quella di Al Qarawiyne: il preside di teologia è il professor Idriss Al Fassi Al Fihri, già noto ai Bellunesi per essere stato protagonista della Giornata del dialogo cristiano islamico del 2017, presso l’ex caserma Piave di Belluno. L’accoglienza del professore è tutt’altro che formale: un sorriso amplissimo e un abbraccio caldo a molti dei pellegrini esprime la sua gioia; da accademico qual è, tiene un discorso nel quale ricorda le radici comuni di cristianesimo e Islam e ne auspica la riscoperta. Regala al vescovo Renato un po’ di incenso da bruciare in Cattedrale. Il vescovo ha baciato il Vangelo in lingua araba, che gli è stato presentato dal professor Al Fassi Al Fihri. Nonostante gli impegni, ha voluto dedicare al gruppo bellunese tutta la mattinata: con lui i pellegrini hanno visitato anche il collegio dove si formano Imam e Oulema da tutta l’Africa.

Padre Matteo da 18 anni a Fes

«Sono quello che è durato più a lungo, in Marocco» dice padre Matteo, parroco di Fes, città di un milione di abitanti, della Società delle Missioni africane; e dà subito il primo dato: in Marocco si battezza! E i catecumeni sono adulti. «La nostra Chiesa è composta da studenti africani, di 28 Paesi; ci sono 30mila studenti universitari qui a Fes, di cui 8mila cristiani, di cui 450 cattolici o che lo stanno diventando». E quindi padre Matteo dice: «la mia parrocchia è eccellente: sono tutti giovani!». Nota però che è un peccato che non ci siano persone adulte di riferimento.

Questi battesimi, alcune decine all’anno (42 nel 2019, durante la Veglia pasquale) sono merito dei musulmani: «è proprio grazie ai musulmani che tanti di loro decidono di diventare cristiani! Nel Marocco la religione è un aspetto essenziale». Quanto, cioè, è accaduto per il beato Charles de Foucauld, convertito dall’agnosticismo grazie a ebrei e musulmani, e al beato Christian de Chiergé, poi monaco e martire a Tibhirine, spinto alla conversione da un amico musulmano che diede la vita per lui, si realizza nello stesso modo per molti cristiani. «Nell’Africa nera – continua padre Matteo – molti sanno di essere cristiani solo perché è stato dato loro un nome cristiano, in quanto i genitori pagani ora si vergognano di dare loro un nome pagano e li chiamano con nomi o musulmani o cristiani: di fronte al fervore religioso che incontrano a Fes e nelle altre città universitarie, sorge in loro il desiderio di vivere in quella fede che finora è stata per loro solo appartenenza identitaria».

Padre Matteo, che ha scelto di vivere senza altri religiosi il suo ministero, sa che nel dialogo «bisogna essere prudenti, per non venire tacciati di proselitismo», quell’atteggiamento che del resto anche la Chiesa ha ripudiato, se mai l’avesse fatto suo. Si dilunga sui problemi che l’organizzazione statale e culturale marocchina può porre a chi pensi di convertirsi al cristianesimo, sia un marocchino che vive in patria o che vive all’estero, ma ammette che «in chiesa e nelle sue dipendenze siamo del tutto liberi».

Fratel Jean Pierre, superstite di Tibhirine

Un lungo percorso porta il pullman dei pellegrini – che attraversa sia località turistiche come Ifrane, dove d’inverno si scia, sia villaggi come Zaouida, dove le case sorgono improvvise dalle rocce del deserto e i marciapiedi sono in terra battuta – alla piccola città di Midelt. I suoi 55mila abitanti non hanno motivo di ricevere turisti e anche l’ospitalità offerta al gruppo è approssimativa: Midelt è stata scelta come sede di tappa perché il suo monastero trappista è l’erede diretto di quello di Tibhirine (si pronuncia Tibèirin), in Algeria. Nella primavera 1996 sette dei nove monaci del monastero furono rapiti e uccisi da estremisti; sono stati beatificati a Orano l’8 dicembre 2018, assieme ad altri martiri algerini. Ora, a Midelt vive frere Jean Pierre Schumacher, alsaziano di origine, l’ultimo superstite di quella comunità. Egli è un monaco che da giovane viveva in Bretagna: fu chiamato dal vescovo di Algeri cardinale Léon-Etienne Duval a ripopolare il monastero di Tibhirine, che fondato nei primi anni del Protettorato francese in Algeria aveva conosciuto un periodo di crisi con l’indipendenza e l’abbandono del Paese da parte degli occidentali. «Prima – racconta con vivacità inversamente proporzionale all’età fr. Jean Pierre – il monastero era quasi in funzione diplomatica, con appezzamenti estesi e decine di persone alle dipendenze: il cardinale Duval volle ripopolarlo con una comunità che fosse esponente di una Chiesa della prossimità e della condivisione, vicina a tutti gli Algerini». Ed ecco il ricordo della vita semplice a Tibhirine (come è pure oggi a Midelt, ndr), con un orto, un oliveto e due alveari di cui sostentarsi e di cui vivere, con la vendita dei prodotti al mercato, come usano i magrebini. «La nostra clausura – dice fr. Jean Pierre – esiste solo in funzione dell’apertura e del contatto» e con una punta di sorriso aggiunge «questo non avviene nei monasteri di Francia». «Non parliamo mai di dogmi con i musulmani – dice in tutta sincerità fr. Jean Pierre – ma ciò in cui ci siamo concentrati è il cammino verso Dio; questo è come una scala a doppio montante (di quelle che si usano per imbiancare, ndr) in cui più si sale più ci si avvicina; così anche noi, cristiani e musulmani, se saliamo verso Dio ci scopriamo passo dopo passo più vicini». Fr. Jean Pierre congeda il gruppo con tre consegne: «il dialogo comincia con l’amicizia, il quotidiano, le feste condivise, l’accettarsi reciprocamente con rispetto delle differenze; continua con il comprendere l’altro nella sua profondità, e questo avviene solo con la grazia di Dio; inoltre conosce la preghiera condivisa».

Anche il priore del monastero, che pure si chiama fr. Jean Pierre ed è francese ma è molto più giovane, nota che non si parla mai di dogmatica con i musulmani, ma si condivide quasi tutto nella vita quotidiana. «Seguiamo il corteo dei funerali e preghiamo sulla tomba; siamo invitati alla festa del sacrificio e ai matrimoni». E la gente di Midelt, che negli anni del Protettorato era convento francescano, «partecipa alla vita della comunità». Fr. Jean Pierre nota che in questa rete di rapporti prendono parte anche le donne, il che non succedeva in Algeria. «Nel 2001, fr. Jean Pierre ha festeggiato i 50 anni di sacerdozio e al rinfresco, con 80 persone, erano più donne che uomini; l’anno scorso, abbiamo festeggiato durante il Ramadàn la professione monastica di un giovane monaco; alla rottura del digiuno abbiamo offerto il rinfresco a 140 persone».

Suor Angela o la semplicità del bene

La comunità internazionale (Francia, India, Libano, Madagascar) delle suore Francescane missionarie di Maria vive presso la parrocchia di santa Teresa a Ouarzazate, una città collegata con voli quotidiani a Bordeaux e ad altre città di Francia: sagrestani e tuttofare della parrocchia sono una coppia di pensionati francesi che viene a Ouarzazate come un tempo si andava in treno o in autobus nel proprio luogo di villeggiatura. Facile da raggiungere in aereo, Ouarzazate ha voluto dire un altro giorno di viaggio da Midelt in pullman, in un paesaggio che all’orizzonte delle rocce del deserto offre, come quinta, le cime innevate dell’Alto Atlante. A Ouarzazate, dove esiste anche una scuola internazionale di cinema – il paesaggio è già un set cinematografico – la comunità vive e opera nel sociale: le suore sono assistenti sociali e infermiere che prestano servizio nel locale ospedale, con una qualche forma di inquadramento nel sistema sanitario nazionale marocchino, e che soprattutto si sono prese in carico il disagio psichico, la disabilità intellettiva, fisica e relazionale, la marginalità… insomma tutta la gamma delle povertà che hanno affrontato, oltre che in prima persona, con la creazione di associazioni, tre di seguito, poi prese in carico dagli abitanti di Ouarzazate. L’ultima, l’associazione «Amnougar» ancora seguita in prima persona dalle suore, si chiama e vuole dare una professionalità ai disabili, così che non siano costretti, un domani, a chiedere l’elemosina. Alla domanda posta dai pellegrini su come la loro opera sia vista dalla gente musulmana, suor Angela, indiana, resta perplessa, come se le si fosse parlato in una lingua a lei nota ma con la pronuncia scorretta e con la sintassi che non corre; risponde: «noi cerchiamo di fare il bene e siamo apprezzate come tutti coloro che cercano di fare il bene». Nota con gioia che è la prima volta che riceve la visita di un gruppo misto cristiano-islamico e abbraccia il vescovo e l’imam.

Padre Zenone: «Anche noi siamo migranti»

Ouarzazate offre un momento del tutto turistico, con la visita al villaggio di Ait Ben Haddou e alla Qasba dell’ultimo pascià dell’Atlante, ma poi tutti in pullman per fare il passo di Tichka a 2260 metri di quota, come il Falzarego, e scendere, tornante dopo tornante, in paesaggi verdi che poco hanno da invidiare a quelli dolomitici, verso la grande città di Marrakech, che vive di turismo. Nella periferia sorge la chiesa dei santi Martiri dove padre Zenone, francescano minore, polacco di origine, ma in Marocco da molti anni, parla con grande entusiasmo della sua chiesa dove moltissimi pellegrini sono musulmani» e nel cui terreno c’è una sala di preghiera per i musulmani, mentre a ridosso del muro di confine «si sta costruendo una sinagoga». La sua chiesa è l’unica al mondo a rappresentare, nell’abside, l’icona dell’incontro tra frate Francesco d’Assisi e il sultano, accaduto giusto ottocento anni fa, nel 1219. Questo incontro tra cristiani e musulmani rende speciale questa parrocchia e, secondo padre Zenone, «tutto il Marocco, che è preso a esempio per quanto riguarda il dialogo interreligioso da tutto il Maghreb: Tunisia, Algeria ed Egitto». Anche sul piano giuridico e dei diritti civili dei credenti il Marocco ha fatto passi evidenti: «dal 1985, cioè dall’anno della visita di papa Giovanni Paolo II, la Chiesa cattolica ha personalità giuridica; abbiamo un nunzio apostolico e un Concordato». Inoltre, «dall’1 maggio di quest’anno le Chiese parrocchiali diventeranno proprietà della Chiesa, non dello Stato o di privati: questo ci darà maggiore libertà». Padre Zenone si dice fiducioso sul fatto che, a breve, anche le persone marocchine che sono state battezzate in Europa o negli Stati Uniti potranno ritornare in Marocco e vivere senza problemi sociali: «questo sarà il termine di un lungo processo iniziato ancora con Benedetto XVI». Parla di mille fedeli, di cui metà sono giovani universitari, a Messa ogni domenica; di una pastorale difficile con i migranti, che il governo marocchino tende a rispedire nel Sahara. «Anche noi – dice – siamo cristiani migranti, siamo una Chiesa migrante: dobbiamo imparare l’arabo o il berbero e pregare in queste lingue».

L’arcivescovo di Rabat: né coca né pepsi cola

Da Marrakech, un milione di abitanti, si passa ai cinque milioni di Casablanca: quasi una megalopoli, dove la pastorale conosce i problemi della vita urbana che sono però affrontati con humour dal vescovo di Rabat, nel cui territorio c’è Casablanca. La diocesi è più grande dell’Italia; il gruppo bellunese incontra il vescovo nella parrocchia di Notre Dame di Lourdes a Casablanca, l’ultimo giorno del pellegrinaggio, il 29 aprile. Il vescovo, salesiano, si chiama Cristobal Lopez Romero ed è il primo vescovo spagnolo a Rabat: la prassi voleva, dagli anni del Protettorato, un vescovo di lingua francese, mentre spagnoli devono essere i Vescovi di Tangeri, a nord del Marocco. Anche con questa nomina papa Francesco ha voluto rimescolare le carte e smentire una volta di più il legame tra la presenza missionaria della Chiesa e la colonizzazione. Di Papa Francesco e della sua visita in Marocco il 30 e il 31 marzo parla con entusiasmo l’arcivescovo: «il Papa dice che non è un problema essere pochi: il problema è essere insignificanti». I cristiani sono tutti stranieri? «Ma noi vogliamo essere una Chiesa incarnata nel popolo del Marocco, non una Chiesa straniera: vogliamo farci in tutto uguali ai marocchini eccetto il peccato», dice con ardita parafrasi di san Paolo. Per essere cristiani incarnati «lavoriamo assieme ai musulmani nella promozione umana e nell’educazione: il progetto educativo delle scuole cattoliche diocesane, che hanno 12mila allievi, è stato redatto assieme tra cristiani e musulmani ed è riuscito così bene che quando lo legge un cristiano dice: qui c’è il Vangelo; e quando lo legge un insegnante musulmano dice: qui c’è il Corano». La maggior parte dei cristiani sono studenti universitari subsahariani: 25% della Guinea Conakry,25% della Costa d’Avorio… sono riuniti nella Aumonerie Etudiants Catholique en Maroc (Aecam). E chiude: «non siamo, è ovvio, né nemici, né avversari, né concorrenti dei musulmani: se diciamo il Padre nostro è perché siamo fratelli e sorelle di tutti. Non siamo la Coca Cola contro la Pepsi Cola».

don Giuseppe Bratti