Migranti, necessaria una strategia utile

Un problema che può essere un’opportunità

A fronte dell’invecchiamento della popolazione italiana, chi può prendere il posto di chi non c’è più?

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«Aiutiamoli a casa loro!», si dice dei migranti. Senza aver stanziato un soldo o trovato il modo per farlo. Intanto sono qua. Principio di realtà. E ci aiutano loro, a casa nostra. Badanti, braccianti, operai edili, persone che fanno le pulizie, portieri di notte, allevatori, imprenditori… per lo più gente giovane, che fa lavori umili, ma necessari e produttivi. E hanno voglia di lavorare (anche se non tutti, avendo imparato dagli italiani a darsela comoda e delegare), tanto che al tempo della raccolta dell’uva e delle mele sono ricercati per il lavoro anche gli ospiti delle strutture d’accoglienza di immigrati. E si alzano prestissimo al mattino.

Ogni persona umana, in sé stessa considerata, è la prima risorsa sociale ed economica. La diversità di cultura e lingua è ricchezza. La capacità di lavoro e relazione di una persona, in base a tale diversità, può riservare sorprese di grande interesse per il paese ospitante (lo sport è solo una delle più piccole evidenze). Perché non si pratica una strategia utile e vincente per tutti?

Il pregiudizio, in primis quello di tipo politico, tendente a una pregiudiziale esclusione generale, non ha alcun pregio lavorativo ed economico, tant’è che una fetta sempre più rilevante delle pensioni italiane è liquidata con i soldi freschi degli immigrati. Dato di fatto: i contributi dei migranti lavoratori all’Inps finanziano per miliardi la sicurezza sociale italiana.

A fronte dell’invecchiamento sempre più forte della popolazione italiana, della diminuzione delle donne fertili, dell’inevitabile svuotamento delle abitazioni, chi altri se non persone immigrate può prendere il posto di chi non c’è più?

La natalità maggiore presente tra gli immigrati non è che risolva tutti i problemi italiani, ma certamente può dare continuità al lavoro e alla produzione del made in Italy. Dove gli immigrati ci sanno fare e si ritengono italiani. Quindi non solo per vincere una medaglia nelle piste di atletica.

Aiutiamoli a casa loro! Certamente. E in modo vero, razionale, non propagandistico e vuoto.

Per esempio, una cooperativa, in accordo con la Caritas e gli Evangelici, ha costituito un gruppo di formazione professionale (tipo stage) con cui ha abilitato coi corsi i migranti a lavori di pulizia, saldatura, piccoli interventi edili, idraulici ed elettrici, falegnameria e meccanica, in vista del loro rientro in patria, se a ciò fossero obbligati. Così a casa loro sapranno cosa fare per vivere e guadagnare, con rispetto e onore per l’Italia che li ha formati. Questo proposto del tutto gratis, senza finanziamenti pubblici, per dare un certificato professionale da porre in tasca e usare dovunque. Soprattutto a casa loro.

E che dire della maledetta confusione che si fa tra rifugiati, richiedenti asilo, profughi, migranti per lavoro, migranti con permesso scaduto…, aggravata ancora di più dalla confusione di concetti/realtà come accoglienza, ospitalità, convivenza, inclusione, cittadinanza, assimilazione, integrazione, meticciato. Dimensioni concettuali e situazioni esistenziali, radicalmente diverse tra loro (chiarezza scarsa anche nelle leggi e nelle regole), che impongono interventi adeguati e diversi, ma nelle teste degli italiani formano un unico e inestricabile groviglio.

«Non mi stanco mai di raccontare la mia storia, uguale a quella di tanti altri, perché, sono convinto: conoscere è il miglior vaccino contro il razzismo». Lo dice e scrive un giovane gambiano, minacciato in patria, perché aveva voglia di studiare e s’era trovato un cellulare. Arrivato in Italia ancora minorenne, dopo aver attraversato il deserto, superato le torture libiche e rischi di naufragio, oggi ha trovato casa e lavoro a Parma ed è innamorato della cucina italiana, che pratica meglio degli italiani. A chi reca danno un giovane così?

don Gigetto De Bortoli