42° anniversario della morte di papa Giovanni Paolo I

Chiesa parrocchiale di Canale d'Agordo
28-09-2020

Gb 1,6-22; Sal 16; Lc 9,46-50

Ricordo benissimo la mattina del 29 settembre 1978: alle 7 mi sono sentito chiamare dalla strada dove era la casa di famiglia.

Una delle persone più dimesse, meno esposte, più ai margini, con smarrimento e commozione mi diceva che il papa era morto. Abbiamo appena ascoltato:

«Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!».

Sono parole di fedeltà, di piena adesione, di amore che dà la vita: sono di Giobbe, un mitico personaggio raccontato nell’omonimo libro della Bibbia. Ma oggi noi le immaginiamo sgorgare limpide e sincere dal nostro don Albino.

È la sua originale “santità”, che stiamo attendendo nel suo riconoscimento pubblico ecclesiale.

Non solo: la preghiera del salmo 16 sembra sgorgare fluente nel momento in cui, in quella notte del 28 settembre 1978, Giovanni Paolo I si abbandonava all’incontro definitivo con Dio:

«Saggia il mio cuore, scrutalo nella notte, provami al fuoco: non troverai malizia».

Sì, nel cuore fragile e ferito di don Albino, il Signore non trova malizia alcuna.

Accostando il racconto evangelico ci appare la sua figura come quella di cui parla: «Allora Gesù… prese un bambino, se lo mise vicino e disse loro: “Chi accoglierà questo bambino nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato. Chi è il più piccolo fra tutti voi, questi è grande».

Forse Albino Luciani non si è mai staccato dalla figura dell’essere bambino, a cui si riferiva e a cui tendeva. Accogliere un bambino e cercare di diventarlo negli aspetti più profondi, pur avanzando nell’età biologica, è un invito del Vangelo. Anche da papa Albino Luciani lo ha perseguito.

Nell’udienza del 13 settembre 1978 ebbe a dire: «Giusto, piccoli dobbiamo sentirci davanti a Dio. Quando io dico: Signore io credo; non mi vergogno di sentirmi come un bambino davanti alla sua mamma; si crede alla mamma; io credo al Signore, quello che Egli mi ha rivelato».

Ciò che noi chiamiamo “umiltà” in Giovanni Paolo I è essenzialmente questa fiducia da bambino. Lo era in profondità.

Udienza del 20 settembre: «…chi ha la speranza viaggia nel mondo in un clima di fiducia e di abbandono a Dio. È come quando si leggono i Salmi. “Signore – si dice col Salmista – tu sei la mia fortezza, la mia roccia, il mio aiuto, la mia lampada, il mio Salvatore, il mio pastore, la mia salvezza. Anche se un intero esercito fosse accampato contro di me, ma non temerà il mio cuore; e se sorge contro di me la battaglia, non verrà meno la mia fiducia”

Dirà qualcuno: Ma non è eccessivamente ottimista questo salmista? Gli sono andate sempre dritte a lui le cose? No, non gli sono sempre andate dritte. Lo sa, e lo dice, che a questo mondo spesso i birbanti sono più fortunati; i poveri sono più oppressi. E se ne lamenta col Signore. Arriva a dire: “Perché dormi, o Signore? Perché taci? Svegliati, Signore; ascoltami, Signore”. Però, la fede, la speranza rimane: ferma, incrollabile. A lui e a tutti gli speranti si può applicare quello che San Paolo ha detto di Abramo: “ha creduto sperando contro ogni speranza”. […]

Allora, accesa da Lui, misericordioso Dio, in me questa fiducia, io non mi sento più solo, né abbandonato, né isolato; anzi mi sento coinvolto in un disegno di salvezza, che avanti avanti, con l’aiuto del Signore, andrà a sboccare nella gioia del Paradiso».

Tanti anni prima, il 4 gennaio 1959, Luciani lo aveva già detto in questa chiesa parrocchiale di Canale, celebrando per la prima volta da vescovo:

«La speranza vuol dire aspettare. Noi cristiani siamo gente che aspettiamo qualche cosa di bello, qualche cosa di straordinario, dal Signore. E dobbiamo aspettare con grande fiducia- Quando si leggono i Salmi da noi sacerdoti è tutto una speranza. Si dice: “Signore, tu sei il mio rifugio; Signore, tu sei la mia luce; io non ho paura; Signore, io sono con te; Signore, tu sei il mio conforto; Signore, finché sei al mio fianco, non temerò in eterno: è questa la speranza”. La speranza è il sorriso della vita cristiana. Che cosa faremmo noi senza speranza? E poveretti, sfortunati, quelli che non hanno più speranza, quelli che sono scoraggiati, quelli che sono avviliti, quelli che sono disperati. Mai disperare: sempre aspettare dal Signore! […] Mai disperare; sempre avere coraggio, perché il Signore è la bontà: sempre: finché ci sono i meriti di nostro Signore Gesù Cristo».

L’invito di Luciani a non disperare mai vale anche quando siamo noi a deludere noi stessi:

«S. Francesco di Sales ha scritto una cosa che sembra esagerata, un paradosso. Disse: “Alle volte è quasi una fortuna aver commesso un peccato: quasi una fortuna: perché allora si sta bassi, allora si capisce che povera cosa noi siamo, allora non si ha più il coraggio di disprezzare gli altri, perché sono peccatori”»

Ne era veramente convinto che ripresentò così questo concetto, ormai seduto sul soglio di Pietro: «Io rischio di dire uno sproposito, ma lo dico: il Signore tanto ama l’umiltà che, a volte, permette dei peccati gravi. Perché? perché quelli che hanno commessi, questi peccati, dopo, pentiti, restino umili. Non vien voglia di credersi dei mezzi santi, dei mezzi angeli, quando si sa di aver commesso delle mancanze gravi. Il Signore ha tanto raccomandato: siate umili. Anche se avete fatto delle grandi cose, dite: siamo servi inutili. Invece la tendenza, in noi tutti, è piuttosto al contrario: mettersi in mostra. Bassi, bassi: è la virtù cristiana che riguarda noi stessi».

Umiltà, speranza, fiducia in Dio: Gesù presenta l’immagine del bambino. Con il decreto super virtutibus la Chiesa ha certificato che Albino Luciani è stato conforme a questa immagine. In attesa del passo ulteriore.