È tempo di riaccendere la profezia

Omelia nel pellegrinaggio a Torre de’ Roveri
12-10-2017

Ml 3,13-20a; Sal 1; Lc 11,5-13

«È inutile servire Dio: che vantaggio abbiamo ricevuto dall’aver osservato i suoi comandamenti?» [Malachia 3,14].

Malachia, l’ultimo dei profeti, non ci sorprende con questa insinuazione. Dopo di lui la profezia si spegne. Dio sembra essersi ritirato, forse sopraffatto da una vicenda umana troppo complessa… come se questa gli fosse sfuggita di mano: ciò che è malvagio sembra vincere su ciò che sarebbe giusto: «I superbi si moltiplicano […] e restano impuniti» [Malachia 3,15].

Non è estraneo questo pensare all’interpretazione che anche noi possiamo dare della stagione che stiamo vivendo, anche del vissuto della nostra Chiesa.

A volte ci scappa di dire: Ma cosa serve darsi ancor da fare e ricominciare quando accanto a noi e dentro di noi c’è così tanta desolazione?

Anche i nostri rapporti possono incorrere in questa lettura e, di conseguenza, frantumarsi.

Oggi sperimentiamo ovunque questa possibilità che anche le relazioni possano diventare talmente fragili da perdersi o spezzarsi.

Siamo venuti qui perché questo “voltarsi indietro” – sfibrati e sfiduciati – si arresti, non si insinui nelle pieghe delle nostre persone e dei nostri rapporti, non si imponga nel nostro spirito, nei nostri sguardi, nelle nostre emozioni, nelle nostre aspirazioni, nelle nostre parole, nei nostri giudizi…

È tempo di riaccendere la profezia anche tra noi, in questo nostro presbiterio. Oltre l’ultima pagina del profeta Malachia che termina con la minaccia dello sterminio, inizia il racconto dei Vangeli. Si apre con la genealogia di Gesù Cristo, ricostruita dall’evangelista Matteo.

Con coraggio ci chiediamo se c’è ancora spazio per un inizio di Vangelo nelle nostre storie, in noi presbiterio, nella nostra pastorale.

Se riuscissimo – ognuno di noi – a pronunciare sull’altro, su ciascun confratello, non una parola di morte, ma quella che sgorga limpida dal primo dei salmi che poco fa abbiamo pregato, una parola di risurrezione, un inizio di Vangelo: «È come albero piantato – lungo corsi d’acqua, che dà frutto a suo tempo: le sue foglie non appassiscono e tutto quello che fa, riesce bene».

 

Curioso, poi, ciò che succede nel racconto evangelico di oggi: ci sono delle parole di insegnamento che seguono la consegna da parte di Gesù del Padre nostro. Questi insegnamenti ci dicono che il Padre nostro non è una preghiera pia, da fare sottovoce, senza disturbare… Occorre andare, insistere, chiedere, cercare, bussare…

Si tratta di un pregare che riaccende la profezia, sfonda incrostazioni che paralizzano, è un “voler bene” che rompe i confini e fa avvicinare e prorompe nella casa altrui…

Ma com’è il nostro pregare? È solo “pio” e devoto o diventa anche inizio di Vangelo? Riesce a diventare grido di aiuto, ricerca di amici, vicendevole accoglienza…?

Pregare è proprio questo: una riserva di fiducia, un “lievito di fraternità”, una profezia che si fa strada, a partire da noi, e che pone uno spiraglio nel cuore di ciascuno, seminando lì questa promessa: «Sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia» e più ancora: «Il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo…».