Il cieco nato

Quarta domenica di Quaresima - Cappella Centro Giovanni XXIII
22-03-2020

1 Sam 17,3-7; Sal 22 (23); Ef 5,8-14; Gv 9,1-41

«Sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: “Va’ a lavarti nella piscina di Siloe […]. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva».

Questa minuziosa descrizione dei gesti e delle parole di Gesù ritorna incalzante nel racconto, almeno quattro volte.

Ed ecco un’importante annotazione dell’evangelista: «Era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi».

Questa descrizione ci riporta all’inizio della Bibbia, lì dove si dice: «Dio, nel settimo giorno, portò a compimento il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro che aveva fatto» (Gn 2,2). Alcuni versetti più avanti, riprendendo una seconda volta il racconto di creazione, si dice: «Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente» (Gn 2,7).

In questi giorni – mentre sempre più ci preoccupa l’emergenza in cui siamo – ci sembra di essere lì, in quel misterioso inizio dove Dio «portò a compimento il lavoro che aveva fatto». Ci sembra di essere fatti «con polvere del suolo» e siamo ad attendere «un alito di vita».

Per cui la figura di quell’uomo cieco dalla nascita, accanto al quale passa Gesù, è in noi. Pensarci come creature che ancora sono tra le laboriose mani dell’artigiano, dell’artista, del creatore da cui proveniamo, ci aiuta a lasciarci plasmare ancora.

Il fango che Gesù fa impastando la terra con la sua saliva è gesto di creazione che sfocia in guarigione; è salvezza. Il fango spalmato sugli occhi del cieco e poi l’invito ad andare a lavarsi con l’acqua della piscina di Siloe sono la premura e la cura con cui si va compiendo l’opera di Dio. Quell’uomo, cieco dalla nascita, attendeva ancora il compiersi del suo nascere: vedere la luce, dunque entrare appieno nel mondo. Se consideriamo in profondità quello che siamo, potremmo ammettere che il nostro vivere è ancora un nascere, un “venire alla luce”. Un’espressione di Maria Zambrano esprime bene quello che noi sperimentiamo: «Noi tutti nasciamo a metà e tutta la vita ci serve per nascere del tutto». Penso che ogni situazione di sofferenza ci porti a scoprirci “nati a metà”, in particolare lì dove nessuna colpa può essere attribuita a qualcuno e quando ci sfugge l’origine del male. Proprio qui si colloca la confidenza che Gesù fa ai suoi discepoli che l’avevano interrogato: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». E Gesù così risponde: «Né lui ha peccato né i suoi genitori». Ed ecco la conoscenza nuova che Gesù affida ai discepoli: «Ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio». Poi Gesù aggiunge: «Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato». E, rompendo ogni indugio, dichiara: «Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo».

È proprio a questo punto che Gesù opera per la guarigione del cieco nato.

In questi giorni la tentazione continua, anche di alcuni cristiani, è l’assurda attribuzione di ciò che sta capitando a un “Dio che ce la farebbe pagare”, perché “ce lo meritiamo”. A riguardo la parola di Gesù è chiara. Gesù nel suo agire, con la sua parola, compreso il suo lasciarsi inchiodare alla croce, ci manifesta che la sofferenza non è mai un castigo di Dio, ma «è luogo in cui Dio manifesta la sua compassione e in cui opera per restituirci alla vita» (Francesco Cosentino).

Così come Gesù ha fatto passando e vedendo «un uomo cieco dalla nascita». La sua guarigione comporta l’avvicinarsi di Gesù, il suo affiancarsi, il suo mettere le mani nel fango, il gesto inusuale di spalmare quel fango sugli occhi del cieco, quell’inviarlo a lavarsi. Apprendiamo da questo Vangelo come Dio sta nella nostra sofferenza, con una compassione in cui lui stesso si immerge, da cui si lascia contaminare. La dichiarazione che i farisei fanno su Gesù, interrogando il cieco guarito, è emblematica per indicare tale sua immersione e contaminazione: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». E dichiarano Gesù “un peccatore”.

Quell’uomo cieco dalla nascita è un buon compagno di viaggio per noi, discepoli di Gesù, che sentiamo incombere ancora molte oscurità. Lo è per le nostre comunità cristiane che in questi giorni si sono poste tante domande, a volte anche disperando, come se Dio ci avesse abbandonati o addirittura puniti. Quell’uomo, cieco dalla nascita, ha lasciato che Gesù spalmasse del fango sui suoi occhi e, brancolando ancora nel buio, si è affidato a lui che lo invitava ad andare alla piscina di Siloe per lavarsi. È  la pazienza di camminare nell’oscurità. Quell’uomo ci sollecita ad entrare anche noi in cammini di guarigione, accettando che progressivamente possiamo essere liberati dal male, attraversando anche passaggi conflittuali, come quelli descritti nel racconto del Vangelo, dove noi stessi siamo chiamati a lasciarci ancora generare come se fossimo lungo tutta la vita “nati a metà”.

Lasciarsi spalmare del fango non è scontato: quante volte fuggiamo dalla nostra fragilità e dalle nostre precarietà. C’è un tempo da sostenere, una gradualità di cui farci carico, una luce da attendere. Si esce da ogni notte di oscurità facendo un passo alla volta e aiutandosi a vicenda. Rivolto ai discepoli, Gesù ha detto: «Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno».

Guardiamo a quest’uomo, cieco dalla nascita, che Gesù ha incontrato: avrebbe potuto stancarsi, ripiegarsi su se stesso, restare prigioniero del lamento, cadere in preda alla rassegnazione e allo sconforto. E, invece, si fida e si affida. Ci spera e ci crede. E, alla fine, davanti a Gesù dice: «Io credo».

Ecco, per tutti i momenti in cui in questi giorni ci sentiremo stanchi, scoraggiati, angosciati, timorosi che questa lunga notte non finisca, guardiamo a questo cieco nato e camminiamo con lui nella fiducia. Tanti medici, infermieri e operatori sanitari stanno offrendo la vita per noi; le nostre istituzioni stanno affrontando una situazione drammatica con attenzione costante. Anche il nostro essere Chiesa si fa vicinanza e sostegno. Dio è con noi e, in Gesù, si è fatto “luce del mondo”. Oltre ogni cecità.

«Grazie fratello cieco, perché in tempo di oscurità ci ricordi l’importanza e il valore della luce» (Francesco Cosentino).