Lungo la via – 2

Celebrazione della Parola – Folgaria
21-06-2017

Dt 1,19-21; Sal 119,105-112; Lc 24,25-29

«Entra… Non temere e non ti scoraggiare!».

Luca presenta nel suo Vangelo Gesù in cammino fino a Gerusalemme. Da Gerusalemme negli Atti degli Apostoli riparte il cammino dei discepoli, poiché Gesù li aveva lasciati con questo invito: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura» (Mc 16,15).

«Questa gioia è un segno che il Vangelo è stato annunciato e sta dando frutto. Ma ha sempre la dinamica dell’esodo e del dono, dell’uscire da sé, del camminare e del seminare sempre di nuovo, sempre oltre» (EG 21).

Questa esperienza del camminare – l’abbiamo espressa come un “mettersi in gioco”, uno “scendere in campo” – ci ha impegnato in questa giornata. I discepoli di Emmaus erano in cammino. Lungo questo andare, in questo loro spostarsi, avviene un cambiamento, più o meno inatteso, più o meno preparato. Il racconto di Luca precisa che nel cammino sono in due, ma un terzo si aggiunge. Noi conosciamo il personaggio, ma il racconto ci porta a stare in quel racconto, ad accettare fino ad accogliere che uno straniero ci raggiunga, si affianchi a noi, entri nel nostro conversare.

Sulla via di Emmaus, anche noi in questi giorni ci siamo messi in cammino. Potremmo dire che dei confratelli “stranieri” – penso ad agordini e a cadorini… – ci hanno raggiunto, si sono affiancati a noi, sono entrati nei nostri racconti. Il gruppo ci ha dato concretamente questa possibilità. Il racconto di Emmaus sta facendo diventare parabola tante esperienze di umanità, di fede, di ministero di cui siamo custodi.

Ieri abbiamo meditato che Dio con Mosè ha deciso di farsi “esodo”, “cammino con il suo popolo”.

Spesso occorre salire sul monte per assaggiare Dio, per percepirne il suo stare con noi.

È un Dio nella storia. Fuori di essa non ci è possibile fare esperienza di lui, della sua cura, del suo essere misericordioso di generazione in generazione.

Quando il Figlio di Dio si fa carne, entra nel cammino della storia. Lui è il più storico di noi, il più fedele alla storia umana.

Ecco perché bisognava che «il Cristo patisse queste sofferenze». Ha scelto di camminare con noi.

In tutto il suo Vangelo, Luca sembra pensare a noi, ai nostri giorni. E lascia aperto quel primo giorno della settimana. Luca è il discepolo che non ha sperimentato Gesù come i Dodici, come Maria di Magdala, come Zaccheo.

Sembra che nel racconto di Emmaus che chiude il racconto del suo Vangelo Luca si immedesima in ciascuno di noi.

Luca sembra dirci che si diventa davvero discepoli di Gesù Cristo lungo il cammino del nostro vivere, lì dove – seppure delusi e tristi – ci si mette in gioco, si scende in campo. Il discepolo è tale quando sa reggere il momento in cui Gesù è sparito ai suoi occhi…

 Il punto cruciale del vangelo che ascoltiamo oggi è che sono i due discepoli a chiedere allo straniero di fermarsi. In questo chiedere sta la svolta: mettersi in gioco è anche il coraggio di esporsi, di far cambiare le cose. Il Signore aspetta che noi gli chiediamo: “Fermati! Abbiamo bisogno di te! Senza te siamo perduti…” Si intreccia il NOSTRO ESPORCI e il SUO FERMARSI: Gesù, col suo fermarsi, ci permette di ripartire; noi, camminando con lui, ritroviamo il senso di essere chiesa: l’invocazione non è solo personale, ma comunitaria: qui trova senso la fraternità.

Due segnalazioni decisive per noi nel racconto dei due discepoli di Emmaus:

  • Gesù è già deciso a proseguire, a sparire – lo doveva! – ma loro insistono e gli chiedono di restare, perché si fa sera. Cos’è questa loro attenzione? È per Gesù? Forse significa semplicemente che insistere lungo la strada con lui cambia provoca un cambiamento decisivo. Il mettersi in gioco è un gesto, una parola, una scelta di genuina umanità, di cura vicendevole, di accoglienza. Siamo provocati sul fronte di questa insistenza accogliente… La responsabilità è squisitamente compatibile con la nostra reale condizione di uomini e donne aperte a una iniziale fraternità, a una iniziale accoglienza…
  • C’è un’insistenza in Luca – penso sia la sua esperienza personale – che si sviluppa nella fraternità dei due discepoli, nella fraternità di coloro che sono a Gerusalemme, al fatto che Gesù è la ragione dl loro stare insieme.

Oggi siamo stati provocati sull’oggi. Non si può vivere senza contesto, senza cornice, senza storia… Significano persone, eventi, scelte, imprevisti, cadute e riprese. Significano cammino.

Daniela stamattina ci consigliava anche come stare in questo tempo:

«Sento che il nostro tempo ha bisogno di uomini e donne che sappiano essere uomini e donne di speranza e di parole semplici e buone che possano orientare e sostenere. Sento che è un tempo nel quale si ha bisogno di accoglienza, di ascolto, di ordine, di priorità, di leggerezza, di complessità, di calore, di semplicità, di silenzio, di musica, di gioco, di mappe, di calma, di cura».

Papa Francesco a Bozzolo, ricordando d. Primo Mazzolari:

  • Il fiume è una splendida immagine, che appartiene alla mia esperienza, e anche alla vostra. Don Primo ha svolto il suo ministero lungo i fiumi, simboli del primato e della potenza della grazia di Dio che scorre incessantemente verso il mondo. La sua parola, predicata o scritta, attingeva chiarezza di pensiero e forza persuasiva alla fonte della Parola del Dio vivo, nel Vangelo meditato e pregato, ritrovato nel Crocifisso e negli uomini, celebrato in gesti sacramentali mai ridotti a puro rito. Don Mazzolari, parroco a Cicognara e a Bozzolo, non si è tenuto al riparo dal fiume della vita, dalla sofferenza della sua gente, che lo ha plasmato come pastore schietto ed esigente, anzitutto con sé stesso. Lungo il fiume imparava a ricevere ogni giorno il dono della verità e dell’amore, per farsene portatore forte e generoso. Predicando ai seminaristi di Cremona, ricordava: «L’essere un “ripetitore” è la nostra forza. […] Però, tra un ripetitore morto, un altoparlante, e un ripetitore vivo c’è una bella differenza! Il sacerdote è un ripetitore, però questo suo ripetere non deve essere senz’anima, passivo, senza cordialità. Accanto alla verità che ripeto, ci deve essere, ci devo mettere qualcosa di mio, per far vedere che credo a ciò che dico; deve essere fatto in modo che il fratello senta un invito a ricevere la verità». La sua profezia si realizzava nell’amare il proprio tempo, nel legarsi alla vita delle persone che incontrava, nel cogliere ogni possibilità di annunciare la misericordia di Dio. Don Mazzolari non è stato uno che ha rimpianto la Chiesa del passato, ma ha cercato di cambiare la Chiesa e il mondo attraverso l’amore appassionato e la dedizione incondizionata. Nel suo scritto “La parrocchia”, egli propone un esame di coscienza sui metodi dell’apostolato, convinto che le mancanze della parrocchia del suo tempo fossero dovute a un difetto di incarnazione. Ci sono tre strade che non conducono nella direzione evangelica.
  • La strada del “lasciar fare”. E’ quella di chi sta alla finestra a guardare senza sporcarsi le mani – quel “balconear” la vita -. Ci si accontenta di criticare, di «descrivere con compiacimento amaro e altezzoso gli errori» del mondo intorno. Questo atteggiamento mette la coscienza a posto, ma non ha nulla di cristiano perché porta a tirarsi fuori, con spirito di giudizio, talvolta aspro. Manca una capacità propositiva, un approccio costruttivo alla soluzione dei problemi.
  • Il secondo metodo sbagliato è quello dell’“attivismo separatista”. Ci si impegna a creare istituzioni cattoliche (banche, cooperative, circoli, sindacati, scuole…). Così la fede si fa più operosa, ma – avvertiva Mazzolari – può generare una comunità cristiana elitaria. Si favoriscono interessi e clientele con un’etichetta cattolica. E, senza volerlo, si costruiscono barriere che rischiano di diventare insormontabili all’emergere della domanda di fede. Si tende ad affermare ciò che divide rispetto a quello che unisce. E’ un metodo che non facilita l’evangelizzazione, chiude porte e genera diffidenza.
  • Il terzo errore è il “soprannaturalismo disumanizzante”. Ci si rifugia nel religioso per aggirare le difficoltà e le delusioni che si incontrano. Ci si estranea dal mondo, vero campo dell’apostolato, per preferire devozioni. E’ la tentazione dello spiritualismo. Ne deriva un apostolato fiacco, senza amore. «I lontani non si possono interessare con una preghiera che non diviene carità, con una processione che non aiuta a portare le croci dell’ora». Il dramma si consuma in questa distanza tra la fede e la vita, tra la contemplazione e l’azione.