Nelle esequie di don Cesare Vazza

Chiesa parrocchiale di Castellavazzo
11-01-2019

1Gv 4,7-11; Sal 71; Mc 6,34-44

Quando per la prima volta, il 16 novembre 2016, entrai in questa chiesa mi venne incontro don Cesare e mi disse: «Bella, bella, bella questa chiesa!». Il tono era solenne e ammirato. Mi comunicava il suo vibrante sapersi affascinare… Oggi vorremmo noi pronunciare per lui: «Bella, don Cesare, la Gerusalemme del cielo!».

Me lo immagino a continuare la lettura dell’ultimo libro lasciato sul tavolino. Quando leggeva entrava con la sua imponente mole nelle storie raccontate. Se lo si distoglieva dalla lettura, sembrava venire da un altro mondo. Altrettanto gli piaceva riscrivere le vicende di vita di persone che aveva incontrato o conosciuto. Tra le ultime sue frequentazioni, che avrebbe voluto far conoscere e pubblicare, il vescovo Cattarossi e papa Luciani. In questo modo don Cesare ha manifestato il suo esserci nella scena della vita. Non c’erano mediazioni in lui. Si direbbe che il suo stile – ma anche il suo ministero – appariva “tutto d’un pezzo”. Anche nell’ultimo tempo trascorso alla Casa Kolbe di Pedavena, quando le forze sembravano venir meno, don Cesare sapeva imporsi. In sala mensa era a capotavola. Immagino così anche il modo con cui ha svolto il ministero pastorale in più parrocchie della nostra diocesi. Ma si trasfigurava quando citava opere, romanzi, personaggi.

Abbiamo riascoltato la parola che l’apostolo Giovanni non smette di annunciarci: «In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui». Questa parola ha illuminato l’ultimo mattino di storia umana e di ministero di don Cesare. Ed essa giunge a noi anche attraverso il passaggio pasquale di questo nostro fratello nella fede. È possibile che noi, unitamente a quanti hanno incontrato don Cesare nello svolgimento del suo ministero, scopriamo che attraverso la sua possente persona, questa parola sveli ancor più la nostra piccola e fragile verità: «Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati». Ci vuole una vita intera – con le fatiche e lotte che essa comporta – per accogliere la chiamata più sublime che ci fa incontrare e conoscere Dio: «Amiamoci gli uni gli altri perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio».

Commovente la scena del vangelo di Marco. Gesù, di fronte a tanta gente che lo seguiva, dice ai discepoli: «Voi stessi date loro da mangiare». Loro si sentono e si trovano incapaci di stare al passo, allo stile e al dono di Gesù. Ora don Cesare può rileggere e cogliere tutti i risvolti della sua storia e ricomprenderla secondo l’invito di Gesù. Il segno finale di quella gente seduta a gruppi, sull’erba verde – come annota l’evangelista – con i pani e i pesci che l’hanno saziata e che avanzano, attesta la compassione di Dio. Il pastore, dunque, non abbandona le sue pecore ma le conduce a pascoli di vita. Giungere a quella compassione è vita eterna per don Cesare, per noi!

Permettete un particolare. Lo racconto perché l’ho colto come un piccolo segno di una cosa grande che stava per accadere. Succede nella vita di tutti. Il giorno di santo Stefano, don Cesare non stava bene. Aveva assunto del dolce in più. Forse in quella circostanza ha sentito rompersi un certo equilibrio. Nella sua stanza erano con me il direttore della Casa Kolbe e don Moreno. Invitato a dire cos’era capitato, don Cesare, senza dire parola, ha aperto il cassetto del suo tavolino, ha estratto due sacchetti di cioccolatini e li ha consegnati a me e a d. Moreno. L’ho colto come un atto di consegna finale, come quando si sceglie di rinunciare a qualcosa a cui si tiene per rimettere la propria vita nelle mani di un altro: come quei cinque pani e due pesci del racconto evangelico.