Nelle esequie di don Vinicio Marcon

Chiesa parrocchiale di Soranzen
04-01-2021

1Gv 2,3-11; Sal 95; Lc 2,22-35

Don Vinicio se n’è andato così come cade e si spegne una meteora. Non avremmo mai creduto che fosse così immediato il compiersi della sua vicenda terrena. Fino a qualche settimana fa la sua tempra di uomo di montagna esprimeva ancora la sua giovialità, carica di una simpatia semplice e trasparente. Sì, qualche acciacco poteva esserci, ma lui si sentiva palpitante e si prestava per ciò che ancora il ministero gli richiedeva. Non solo, la sua spontanea generosità lo rendeva servizievole e disponibile a compiere dei gesti di aiuto, di collaborazione, di cortesia. Così è stato dapprima con don Andrea e, poi, con don Samuel. Anche nel nostro presbiterio, specie tra i confratelli più anziani, si poteva contare su di lui, magari per un passaggio in auto. Era puntuale agli incontri fraterni di preghiera settimanale a Santa Giustina, di ritiro, di formazione.

La prima lettera di Giovanni – che già avevamo ascoltato il giorno in cui don Vinicio ci ha lasciato – mette in chiaro che cosa è decisivo nella vita: «Chi dice di rimanere in lui [Dio], deve anch’egli comportarsi come lui [Gesù] si è comportato». È questo il «comandamento antico […] ricevuto da principio», ma è anche «un comandamento nuovo» – precisa Giovanni – che porta luce nella vita e mai è definitivamente adempiuto. Don Vinicio aveva questa luminosità, più o meno intensa come può succedere nelle situazioni in cui ci si imbatte, ma egli rimaneva radicato nella parola «che aveva ricevuto da principio». Non era un uomo di raffinate teorie, non era un prete di sottili ragionamenti e discorsi. Come anche qualche suo pensiero poteva apparire istintivo e parziale.  La luminosità della sua umanità, del suo credere, del suo ministero appariva nella sua pratica di vita, nel suo comportarsi al seguito e sull’esempio di Cristo. Non si è mai fatto concorrente di nessuno, ha sempre lasciato lo spazio agli altri verso i quali si metteva a servizio. Alla stregua di Giuseppe, come abbiamo contemplato nel mistero del Natale, d. Vinicio si è lasciato coinvolgere, senza rivendicare diritti o privilegi, in un’opera di custodia e di protezione, fino in fondo. Lo ha fatto, in modo impareggiabile, con il vescovo Maffeo. A seguito di questo divenne anche “missionario”, sulla scia della Fidei donum, vivendo il ministero nella Chiesa sorella di Verona.

Dalle parrocchie di montagna ad altitudine elevata da cui ha iniziato, ha saputo discendere fino a valle, fino alla pianura. Questa duttilità di ministero è interpretabile con il mistero dell’incarnazione che abbiamo contemplato e celebrato in questi giorni. E, di fatto, nei giorni successivi al Natale don Vinicio si è avventurato nell’estrema sua incarnazione, similmente al Verbo che si è fatto carne. Proprio in questi giorni don Vinicio, con l’immediatezza di sempre, ha saputo cogliere il momento supremo che sopraggiungeva. L’ha percepito, l’ha confidato, se ne è convinto. Domenica 20 dicembre, quando ricevetti la sua prima telefonata dopo alcuni giorni di silenzio vissuti in ospedale, mi diceva, con voce ferma e sonante, di essere spossato e provato. Poi precisò di sentirsi come un sacco svuotato e di non avere la forza di stare in piedi. In realtà egli veicolava una serenità che si espresse in mille ringraziamenti in quei giorni. Ringraziava per l’affetto dimostrato nei messaggi, per la preghiera rivolta a Dio per lui. Si sentiva indegno di tutto ciò. Qualche giorno dopo mi telefonò dicendomi, con convinzione e decisione, che io gli avrei celebrato le esequie: le chiedeva umilmente nella chiesa di Soranzen, segno di un legame appassionato con questa comunità. E desiderava che la sepoltura avvenisse nel cimitero di Soranzen. Ed ora per noi: come non immaginare don Vinicio nelle sembianze di Simeone di cui ci ha parlato il racconto evangelico? Di Simeone, «uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione di Israele», si dice: «Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore».

Anche qualche altro confratello ha riscontrato negli ultimi messaggi di don Vinicio questa intensa percezione che fosse giunto il tempo opportuno per l’incontro finale: «Mi sento vicino al grande passo! Ringrazio il Signore del purgatorio che sto vivendo. La mia preghiera è: soffro e offro».

L’evangelista narra che Simeone accolse tra le braccia il bambino Gesù e che benedisse Dio dicendo: «Ora puoi lasciare Signore che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza».

Sì, è di consolazione per tutti noi – in particolare per quanti siete stati la sua comunità e la sua famiglia – immaginare don Vinicio nell’atto di innalzare il bambino Gesù per benedire Dio e nell’atto di porgerlo, con animo rappacificato, a noi nel ministero e nei tanti gesti di servizio che ci ha destinato.