Sembrava inseguire una meta che era oltre ogni approdo

Omelia nelle esequie di Severino Pinna - chiesa parrocchiale di Santa Giustina
04-12-2021

Is 30,19-21.23-26; Sal 146; Mt 9,35-38; 10,1.6-8

Ci ha drasticamente sorpreso l’andarsene veloce e furtivo del nostro Severino l’uno dicembre, dieci anni dopo l’uno dicembre in cui se ne andò in Africa. Intraprendere viaggi intercontinentali non è cosa da poco, eppure in lui si addiceva al suo modo di vivere. Severino sembrava inseguire una meta che era oltre ogni approdo. Quale era la sua casa? A chi egli apparteneva? Sono domande che rimangono aperte e lasciano intravedere la sua indole di uomo, che si è aperto e si è reso disponibile, che si è dato e donato. In questo ultimo suo viaggio, Severino ci ha superati, ha inseguito un sogno che in nessuna delle nostre terre poteva definitivamente realizzarsi.

La Parola del profeta Isaia, appena proclamata, sembra raccogliere il racconto dei 56 anni di Severino: «Anche se il Signore ti darà il pane dell’afflizione e l’acqua della tribolazione, non si terrà più nascosto il tuo maestro; i tuoi occhi vedranno il tuo maestro, i tuoi orecchi sentiranno questa parola dietro di te: “Questa è la strada, percorretela”».

Severino ha percorso una strada, non si è bloccato sulle cose passate. Si è aperto e ha valicato i confini di un continente sempre nuovo, l’Africa. Io l’ho conosciuto quando andai in visita alla missione di Gaya, in Niger. Era lì tuttofare, accanto a don Augusto, in una silenziosa e complice intesa con lui. Me lo vedo ancora con il suo pick up: partiva per il lavoro, rientrava per la sosta del pranzo e, poi, ancora ripartiva e tornava. Viveva nel suo lavoro, con intraprendenza, con genialità, con soddisfazione. Progettava, dirigeva e costruiva: un’arte fatta di composita bravura. Si potrebbe dire che non ammetteva concorrenti. Sapeva il fatto suo. In quella mia visita, ho visto Severino tutto dedito alla costruzione della nuova scuola, un modello, un gioiello nel contesto di estremo bisogno di quella città, affollatissima di bambini, di ragazzi, di giovani. La passione e la dedizione del suo lavorare velavano un sentimento profondo di dedizione missionaria, di amore fatto come i mattoni: consistente, resistente, robusto. Quando, accompagnati da don Augusto entrammo nel carcere cittadino, riempito all’inverosimile, uno stuolo di giovani si avvicinarono a Severino, gli sorridevano, gli gridavano qualcosa che sapeva di tanta gratitudine, che indicava il dono di solidarietà che avevano ricevuto da lui. Vi aveva lavorato per rendere più vivibile e umano quel luogo.

L’immagine che ci ha offerto il vangelo di oggi sembra intrecciarsi con le sembianze di questo nostro fratello Severino: «Vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore». Non si è arreso Severino di fronte alle stanchezze della vita, ma ha osato compassione. Egli ha portato così l’immagine di Cristo: «Strada facendo, predicate, dicendo che il regno di Dio è vicino». A suo modo, nell’accostarsi alla missione della Chiesa di Belluno-Feltre, accolto dapprima da don Virginio, poi da don Augusto, ospitato più volte da Ugo Chinol e, infine, accolto ancora da don Davide, Severino ha lavorato costruendo con malta e mattoni e, poi, utilizzando i vari attrezzi nella cura dell’ultima missione e abitazione – il Centro Papa Luciani per innalzare anche lui un po’ del “regno di Dio”.

Siamo grati al Signore per averci donato questo fratello lavoratore, con il suo genio e la sua arte, a volte acceso e inquietato dal contrasto dei suoi sentimenti che esigevano schiettezza e onestà.

Non nascondo i sentimenti di commozione pensando a quanto ci siamo detti appena martedì scorso, nella stanza dell’ospedale di Feltre. Dopo un’esitazione iniziale, subito liberata da alcune lacrime, mi confidava che avrebbe cercato di lottare contro il male che l’aveva travolto; non aveva pensieri di risentimento. Avrebbe voluto ancora operare, forse anche ancora partire… Questo arcano desiderio portava con sé la riserva di tutto il bene che con fatica e con dedizione Severino ha voluto, nutrito e donato.

Siamo qui con il fratello e due nipoti e, uniti nella preghiera, gli altri familiari. Possiamo davvero immaginare che quanto abbiamo pregato nel salmo responsoriale sia proprio Severino a testimoniarlo e a consegnarlo a noi in una conoscenza più profonda del mistero della vita: «Il Signore risana i cuori affranti e fascia le loro ferite […] la sua sapienza non si può calcolare. Il Signore sostiene i poveri».

Sì, Severino ha conosciuto così Dio, di cui si è fidato e a cui si è affidato.