Siamo un po’ irrisolti

Alla settimana per i preti - Borca di Cadore
19-06-2019

2Cor 9,6-11; Sal 111; Gv 20,1-10

Per immaginare i tre discepoli coinvolti – secondo il IV Vangelo – quel «primo giorno della settimana», potremmo riprendere quanto diceva Arianna ieri mattina: «Siamo così come ci ha pensati, voluti, amati Dio: un po’ irrisolti».

Non è male questo aggettivo. Chi di noi si trova già “risolto”? Tutte le volte in cui ci siamo illusi di aver compreso e definito una tappa della nostra vita, il giorno dopo – in un “primo giorno della settimana”, 36 ore dopo, si diceva stamattina – ci siamo trovati come Maria di Màgdala, «quando era ancora buio» e nella necessità di ripartire senza sapere bene che cosa ci sarebbe poi capitato, che cosa avremmo realmente trovato alla fine.

Siamo disposti a raccogliere l’irrisolto che c’è nella nostra umanità, nella nostra fede, nei nostri affetti, nel nostro ministero, nel nostro presbiterio, nelle nostre comunità, in questo nostro tempo?

In questo chiaroscuro della vita la Parola appena proclamata illumina i nostri passi: «Colui che dà il seme al seminatore e il pane per il nutrimento, darà e moltiplicherà anche la vostra semente e farà crescere i frutti della vostra giustizia» (2Cor 9,10).

[Mi pare molto realistico quanto scrisse il vescovo Oscar Romero: «Piantiamo semi che un giorno cresceranno. Innaffiamo semi già piantati, sapendo che portano una promessa per il futuro […]. Non possiamo fare tutto e c’è un senso di liberazione nel prenderne coscienza. Questo ci permette di fare qualcosa e di farlo molto, molto bene. Potrà essere incompleto, ma è un inizio, un passo sulla via, un’opportunità per la grazia del Signore di entrare e di fare il resto».]

Mi sono chiesto in che cosa si concretizzano per noi, oggi, alcuni tratti del racconto di Gv 20,1-10.

La metafora del parto usata stamane è davvero adeguata e intensa. Comprendiamo che Maria di Màgdala anticipa il nostro essere Chiesa dei discepoli di Gesù. Lui l’abbiamo già conosciuto, ma non basta; ci ha sanati, ma non è finita. Dirà Paolo: siete salvi ma nella speranza! La storia è lo svolgersi di noi di tutto quel parto, fino alla fine. Il primogenito è risorto, ma lui attende fino all’ultimo fratello e sorella che verranno alla luce.

Anche il sepolcro aperto suggerisce la dinamica del partorire. Abbiamo molti segnali riconducibili a quella «pietra […] tolta dal sepolcro». Oggi nel pomeriggio ci siamo raccontati di queste pietre tolte che immettono su brecce nuove nelle storie delle nostre vite. Non sappiamo chi abbia tolto la pietra d’ingresso. Una Chiesa che umilmente giunge presso queste pietre tolte nella vita delle persone, è una Chiesa discepola che si predispone a lasciarsi incontrare dal Risorto. A volte ci è successo di porre o gettare pietre per chiudere brecce che si stavano dischiudendo. E, invece, erano soglie che dovevano restare aperte: non spetta a noi ostruirle!

Poi l’evangelista nota che giunge lì anche quell’«altro discepolo, quello che Gesù amava». Si ferma. Si china e intravede qualcosa: si tratta dei «teli posati là». Il discepolo non entra, ma aspetta. Questa scena è commovente. Dice la via dell’amore, quando la fede ha bisogno della commozione e dei gesti del cuore. Senza questo tempo dell’amore è difficile approdare alla fede.

Ma il nostro ministero come sosta in questo tempo dell’amore, che è un tempo perso, gratuito e che non invade, non entra? Mi chiedo se oggi siamo disposti a non entrare ancora, a sostare sulla soglia per impararlo questo tempo… per lasciarci cambiare, formare, per diventare ancora quello che non siamo…

E, poi, ecco Pietro che giunge dopo. Questo “dopo” di Pietro lo conosciamo bene. Dice anche quello che è successo nel momento del rinnegamento. Mi rendo conto dei tanti “dopo” che anch’io scopro in me. Mi accorgo tantissime volte che nell’incontro con le persone – anche con voi – succede quel “dopo” di Pietro… È il “dopo” dei nostri rapporti per cui dobbiamo fare i conti con il fatto che giungiamo in tempi diversi, con delle fratture di tempo. È anche il nostro “dopo” nei riguardi dei giovani. È il “dopo” con cui siamo giunti in tante situazioni difficili della vita di coppia e di famiglia. È il “dopo” della Chiesa nelle drammatiche situazioni di abuso.

Presso quel sepolcro non ci sono più discepoli trionfanti e tronfi, con la pretesa di avere tutta quanta la verità nelle proprie mani.

All’arrivo di Pietro, il discepolo amato, fa’ un gesto di “misericordia”: si mette da parte e lascia che Pietro entri e veda. L’evangelista non ritiene importante dire se Pietro abbia creduto. Lì si manifesta un gesto di misericordia che genera una fraternità presso il sepolcro vuoto. È ancora tempo dell’amore. Non penso sia comprensibile. Ciò che è avvenuto tra la sepoltura del corpo di Gesù e l’entrata nel sepolcro dei discepoli non lo si sa. È un tempo incalcolabile. È un tempo non consumato. In esso è avvenuta una immane – ma nascosta – fuoriuscita di vita. È la “sproporzione” della grazia.

Anche da parte nostra oggi tutto questo non va consumato nelle nostre parole, nella nostra pastorale, nelle nostre spiritualità… L’umile e fragile segno che i discepoli portano con sé è un gesto di misericordia e una fraternità ricomposta. L’evangelista annota che «non avevano ancora compreso la Scrittura”. Lo dice al plurale e ci riguarda. Il tornare «di nuovo a casa» dei due discepoli lascia intendere un tirocinio ancora aperto. E tutto questo continua in noi, oggi: è anche il nostro tirocinio, il nostro tornare «di nuovo a casa».

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In questa prospettiva mi pare si colloca quanto ci ha detto d. Marco stamattina e poi ripreso dalla domanda di d. Marco De March riguardante la sacramentalità.

Essa è anche un linguaggio, ma in quanto rappresenta la vera dimensione del reale, della vita, del Vangelo, della Chiesa, di Cristo. Niente è un assoluto in sé stesso. Tutto è un rimando all’altro, all’insieme. Una realtà riporta alle altre. Ognuno di noi porta in sé l’umanità intera.

Che tutto è sacramentale ce lo dirà tra poco il momento della presentazione delle offerte (offertorio). Diremo che insieme il pane e il vino sono dono di Dio e frutto della terra e del lavoro umano. Eccezionale: l’eucaristia non è solo gesto di Dio ma si compone con la creazione e con l’opera umana. È frutto anche del nostro apporto. Non è detto che sia solo lavoro di noi presbiteri o dei soli cattolici o al massimo dei cristiani. È lavoro umano, cioè di tutti. I nostri sacramenti sono inclusivi: portano con sé all’incontro con Dio – che è grazia – il lavoro di ogni uomo e di ogni donna, accanto a tutta la creazione.

Per usare l’espressione di stamattina: questo è principio generatore e generativo della Chiesa. Questa è la sua “forma”!