A cura di don Ezio Del Favero

152 – Il bambino e il creato

Da quel giorno non riuscii più a sparare un solo colpo di fucile...

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In una valle di montagna, presso una piccola radura in mezzo al bosco, un cacciatore stava seduto su di un sasso con accanto un cane che sembrava avere un’aria malinconica. Passò di là un suo amico e gli chiese: «Come mai te ne stai lì seduto, con il cane da caccia e senza il solito fucile?».

Il cacciatore spiegò: «L’anno scorso decisi di portare il mio nipotino a cacciare la lepre con me. Felice della proposta, il ragazzino si mise uno zainetto sulle spalle e mi seguì in mezzo al bosco. A un tratto si fermò, raccolse da terra un bruco e lo depose delicatamente su di una grossa foglia dicendo: “La maestra ha detto che dobbiamo amare gli animali, sempre!”. Provai un senso di disagio. “Nonno, perché i soldati portano il fucile?”. Io risposi: “Per difenderci da coloro che vogliono farci del male!”. Il piccolo aggiunse: “Tu pensi che la lepre possa farci del male? Anche se essa fosse cattiva e mangiasse i frutti del nostro orto, bisognerebbe perdonarla. La maestra ha detto che bisogna sempre perdonare, a tutti e a tutte le creature!”. Quando arrivammo vicino alla tana della lepre, mi fermai e accennai al bambino di non muoversi. Imbracciai il fucile e lui mi disse con espressione supplichevole: “Nonno, non potresti perdonarla? Almeno per questa volta!”. Ci pensai un attimo, poi risposi: “Va bene, come vuoi! Ma alla nonna che cosa portiamo?”…».

Il vecchio proseguì il suo racconto: «Ai bordi del sentiero c’erano dei bellissimi ciclamini. Li guardai ma non dissi nulla: forse la maestra aveva fatto qualche considerazione etica sull’abitudine di cogliere i fiori per poi farli morire in un vaso! Alla fine, proposi di tornare a casa. Sulla via del ritorno raccontai a mio nipote la leggenda dei ciclamini. “Il nome ciclamino – precisai – ha origine dal greco kyklos, che significa cerchio, ciclo, in riferimento alla forma dei suoi bulbi ma anche al cuore del suo calice perfettamente circolare come un’aureola. I greci consideravano il ciclamino il fiore della fecondità. Demetra – racconta la leggenda – era la dea della fertilità. Stava cercando sua figlia Persefone, dopo che Ade, il dio degli inferi, gliela aveva rapita mentre stava raccogliendo dei fiorellini nella piana di Nysa, insieme ad altre ninfe. Demetra, nella sua disperata ricerca, periodo difficile in cui anche la terra si fece arida riflettendo lo stato interiore della dea, incontrò un gruppo di ninfe, che cercarono di consolarla danzando per lei. Volteggiando con grazia, riuscirono a trasmettere al cuore di Demetra un po’ di conforto. Fu allora che sotto i passi leggiadri delle ninfe nacquero i ciclamini. Dopo quel momento di tregua dal dolore, Demetra riprese il suo viaggio alla ricerca di Persefone, rifiutandosi di benedire la terra con la sua fertilità finché non le fosse restituita la figlia… Questo spiega il ciclo annuale delle stagioni”. In quel mentre arrivammo nei pressi del nostro frutteto, dove prendemmo alcune mele e alcune susine per la nonna, così da far contenta lei e anche i leprotti e anche i ciclamini, ma specialmente il mio nipote caro».

«Da quel giorno – concluse il nonno – non riuscii più a sparare un solo colpo di fucile. E mio nipote continua a mettere in salvo i bruchi e a lasciare sul prato i ciclamini e i fiorellini. Dice che da grande farà il veterinario. Adesso capisco la maestra e le sono riconoscente, perché le abbiamo affidato un bambino e lei ci ha restituito un grande difensore del creato».


La parabola – raccolta in ambiente alpino – insegna che il creato va rispettato, difeso e conservato. Niente e nessuno merita di subire violenza, mai. Dovremmo impegnarci, con le nostre opinioni e tutta la nostra forza, a difendere la creazione e le creature, al primo posto gli esseri umani, sempre e comunque.

Quanto al ciclamino, il misterioso fiore dal capo chino e dai petali delicati che fiorisce quando le altre piante chinano il capo di fronte al freddo, esso ci accompagna con una promessa: quella che si può sbocciare anche nelle avversità e rispondere a ciò che ci affligge con grazia.