A cura di don Ezio Del Favero

169 – La storia di Taqqiq e Siqiniq

La malvagità va contrastata, anche se non con la vendetta

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Accanto alle scogliere rocciose, il giovane Taqqiq, cieco dalla nascita, viveva con la sorellina Siqiniq nell’igloo di un’anziana zia, essendo rimasti orfani. La piccola, nonostante la tenera età, cucinava, conciava le pelli e cuciva vestiti caldi e resistenti. Dopo la morte dei genitori, i due piccoli erano stati accolti da quella zia, malvagia, che considerava il nipote cieco una bocca inutile. Essendo primavera, l’igloo cominciava a sciogliersi, le pareti brillavano di mille perle d’acqua e il tetto minacciava di crollare.

Una notte, mentre dormivano profondamente rannicchiati in una pelle di caribù, i tre furono svegliati da un ringhio spaventoso. Taqqiq comprese che era l’orso; bisognava reagire. La zia afferrò arco e frecce e disse al nipote: «Questa è l’occasione per uccidere il tuo primo orso. Ti aiuterò a colpire l’obiettivo; lasciati guidare!». Detto fatto: il ghiaccio si spezzò sotto il peso dell’orso caduto. Un ampio sorriso illuminò il volto di Taqqiq. Il quale fu sorpreso quando la zia gli disse furiosa: «Stupido! Hai ucciso il cane! Non solo hai mancato la preda, ma ci privi anche del nostro miglior cane da slitta!». La zia prese per sé la carne e la pelle dell’orso, sognando il vestito soffice e caldo che si sarebbe cucito. Poi uccise il cane e ne cucinò la carne. A ogni pasto, serviva la carne di cane a Taqqiq, mentre lei e Siqiniq mangiavano la carne di orso.

Una sera, Siqiniq nascose la carne sotto il suo parka (giaccone di pelle) e la offrì al fratello: «Eccoti della buona carne d’orso!» Taqqiq ebbe quindi la prova che aveva effettivamente ucciso l’orso e che la zia fosse davvero bugiarda ed egoista. Così decise di vendicarsi. «Sorellina, potresti guidarmi alle scogliere domattina?».

La mattina dopo, Siqiniq accompagnò Taqqiq sulla riva del mare, dove le scogliere si riflettevano sull’acqua. Il paesaggio era magnifico e alla piccola dispiaceva che suo fratello non potesse vederlo. Gli ultimi blocchi dei lastroni di ghiaccio scivolavano dolcemente lungo la costa. Gli uccelli si tuffavano a picco dalle cime rocciose verso il mare, alle cui grida le scogliere rispondevano in eco. Taqqiq percepiva questa effervescenza intorno a sé e sarebbe stato felice di vedere il sole che riscaldava il suo viso e gli uccelli che si tuffavano dalle scogliere. «Grazie, sorellina, per avermi accompagnato. Lasciami solo e torna all’accampamento!». «Ma tu come farai a tornare?». «Non preoccuparti!». Così Siqiniq prese la via del ritorno, lasciando il fratello da solo, seduto su di una scogliera rocciosa.

A un certo punto, il ragazzo sentì volare accanto a sé un uccello che intuì essere una Gavia Arctica e gli disse: «Gli anziani ritengono che tu abbia il potere di far ritrovare la vista!». «Sì, è vero. Ma ci vuole molto coraggio!». «Sono pronto!». La Gavia immerse il volto del ragazzo nell’acqua gelida. Taqqiq sentì il freddo bruciargli le tempie. Riemergendo, scoprì che stava percependo della luce. Poi il volatile gli riaffondò la testa più a lungo. Quando riemerse, Taqqiq vide delle forme. Dopo la terza immersione, così lunga che il ragazzo temette di annegare, Taqqiq fu in grado di distinguere i giovani volatili che stavano compiendo il loro primo volo dalle scogliere.

Felice, il ragazzo ringraziò la Gavia e tornò all’accampamento saltando da una roccia all’altra, lui che aveva sempre camminato a tentoni. Mentre si avvicinava all’igloo, riprese la solita andatura esitante, in modo che nessuno si accorgesse che aveva ritrovato la vista.

La vita riprese il suo corso normale. La zia continuò a essere cattiva con il ragazzo, che stava pensando a come vendicarsi. Una mattina, Taqqiq fu improvvisamente svegliato dalla zia: «Sbrigati! I beluga sono arrivati! Non dobbiamo perdere l’opportunità di catturarne almeno uno piccolo». Raggiunta la riva, la zia si avvolse la corda dell’arpione intorno ai fianchi: «Ti aiuterò a sollevare il beluga fuori dall’acqua quando lo avrai arpionato. Ma deve essere piccolo, altrimenti non ce la faccio! Eccone lì uno! Tira l’arpione di fronte a te!». Ma Taqqiq lanciò l’arpione verso un enorme maschio. Costui, sotto l’effetto del dolore, cominciò a nuotare al largo, veloce. La zia, non avendo il tempo di slegarsi, fu trascinata via, sulla scia dell’animale. Il ragazzo le urlò contro: «Tu che hai tenuto la carne dell’orso per te sola, tieniti anche questo grosso beluga!»…


La parabola – raccolta tra gli Inuit in Canada – termina dicendo: «I capelli della zia malvagia si torsero fondendosi in una lunga zanna d’avorio, dando origine al primo Narvalo». La malvagità va contrastata, anche se non con la vendetta. Recita un proverbio Inuit: «A forza di amare un fiore, lo si fa nascere».