Era difficile riconoscere un mercante, un ambasciatore o magari anche un parente che arrivava da lontano: per questo, gli antichi Greci avevano escogitato un semplice stratagemma, chiamato symbolon. Un oggetto veniva spezzato in due parti, perfettamente coincidenti, che poi dovevano essere fatte combaciare, permettendo il riconoscimento. La festa che oggi celebriamo, l’Ascensione, è il sigillo di Dio sulla nostra umanità, è il compimento della Sua attesa per noi, la gioia per il nostro desiderato ritorno a casa.
Il Vangelo che abbiamo ascoltato – ripreso dalla pagina degli Atti, che ne costituisce la naturale prosecuzione – ci racconta, in realtà, un distacco, il congedo definitivo di Gesù dai suoi, il Suo andare al cielo: eppure, è una pagina piena di gioia. Con Gesù, un pezzo della nostra umanità entra per sempre nella vita di Dio: con Gesù Risorto, quello che siamo – il nostro corpo, i nostri sentimenti, i nostri pensieri, persino la polvere della terra che ci sporca i piedi affaticati per il lungo cammino – entrano nel cuore della Trinità, nel “cielo stesso”, come afferma l’autore della lettera agli Ebrei. Con Gesù, il pezzo dell’uomo combacia perfettamente con il pezzo di Dio. Chiude vittoriosamente la vicenda che era iniziata con l’Incarnazione, con il farsi carne del Figlio, con l’assumere, abbassandosi, la nostra fragile umanità. Permette il riconoscimento, la festa dell’incontro.
L’ultimo gesto di Gesù che si stacca da terra è la benedizione, che sarà completata a Pentecoste dall’arrivo impetuoso dello Spirito Santo: i testimoni della Pasqua, i discepoli di ogni tempo e di ogni luogo, coloro che sono chiamati a proclamare la Parola sino ai confini della terra, sono custodi semplicemente di una benedizione. La loro preghiera, la loro vita lo testimonia, perché la loro preghiera è una preghiera di lode, di ringraziamento, di gratitudine. Con la nostalgia del cielo, a cui hanno guardato intensamente, sono inviati ai quattro angoli della terra, alla vita di ogni giorno, alle fatiche e alle sfide terrene che apparentemente hanno poco o niente a che fare con l’altezza vertiginosa dell’evento di ci sono stati testimoni: eppure, proprio quello è il campo in cui sono chiamati a portare la benedizione.
Proprio lì sono invitati a mettere in gioco uno sguardo diverso, una parola diversa, un sentire diverso. Proprio lì, sono chiamati a ricordare – nel senso forte di riportare al cuore, di fare una memoria che inquieta il presente e fa sognare il futuro – la benedizione che hanno ricevuto. Sgorga una responsabilità grande, dall’Ascensione: siamo chiamati a prenderci cura della nostra umanità. A diventare pienamente uomini, pienamente donne. A maturare nella capacità di stare nella vita, nelle vicende belle e nelle vicende tristi, nel riso e nel pianto. Nelle nostre emozioni, nella nostra capacità di pensare e di riflettere, nell’esercizio dei nostri sensi, nel dono del nostro corpo. Su questo cammino, che dura tutta la vita, che si rinnova ogni giorno, Dio ha pronunciato la Sua benedizione.
Al termine del viaggio, ci attende il combaciare perfetto del Suo pezzo con il nostro, il Suo riconoscerci, il Suo correrci incontro. Al termine del viaggio, ci attende la festa della vita, che Dio vuole condividere con noi, Al termine del viaggio, ci attende lo stupore di scoprire che desiderare il cielo significa amare la terra.