Ho letto qualche settimana fa su un giornale che non si può affermare di essere stati abbastanza tempo a Vienna, se ancora ci si vergogna a fissare intensamente le persone in metropolitana: a quanto pare, la curiosità degli abitanti della capitale austriaca supera la discrezione e consente loro di osservare attentamente gli ignari viaggiatori.
Tralasciando queste note di colore sui viennesi, forse a volte un po’ stereotipate, il protagonista del Vangelo di oggi è indubbiamente lo sguardo su Gesù e di Gesù: uno sguardo curioso e indagatore da parte dei farisei, uno sguardo attento a capace di cogliere le sfumature da parte di Gesù. I banchetti erano molto più di una condivisione del cibo: si discuteva di affari, si stringevano patti commerciali e alleanze, si commentava la situazione politica. Essere ai primi posti significava avere accesso a informazioni di prima mano, poter rivolgere la parola a persone influenti, stare con “quelli che contano ed abitano la stanza dei bottoni”: non è l’atteggiamento di Dio.
La parabola che Gesù racconta e le parole che indirizza all’ospite tratteggiano una costante del Regno di Dio, suggeritaci anche dal libro del Siracide: «Chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato. Quanto più sei grande, tanto più fatti umile, e troverai grazia davanti al Signore». Sono parole che contrastano nettamente con la logica del mondo e con la competitività spietata che muove il nostro modo di agire, sia a livello economico sia a livello politico. Dio si china, Dio serve l’uomo, Dio è vicino ai piccoli e ai poveri.
Ma c’è di più: l’amore di Dio, che si traduce nell’invito al banchetto e alla festa, invita «poveri, storpi, zoppi, ciechi», coloro che non possono ricambiare. L’amore di Dio, cioè, è gratuito, non chiede niente in cambio, è in perdita. E questo amore, incredibilmente fecondo e liberante, è l’amore che Gesù propone ai suoi e che sostiene il Regno di Dio; questo amore, tante volte – apparentemente – destinato a perdere, a non guadagnare, a non essere visto né pubblicizzato né notato, questo amore così fragile eppure così potente, questo amore dell’ultimo posto, che è il posto di Dio, la cui potenza non si basa sulle alleanze tattiche e le discussioni sottili, ma sulla bellezza inerme e travolgente della gratuità, dell’umiltà, del servizio libero e gioioso.
Spesso, abbiamo interpretato queste pagine come rivolte esclusivamente al singolo credente, dimenticando quello che la lettera agli Ebrei ci spiega chiaramente:
«Voi vi siete accostati al monte Sion, alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a migliaia di angeli, all’adunanza festosa e all’assemblea dei primogeniti, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti, a Gesù».
Insieme ci avviciniamo a Dio, insieme ascoltiamo la sua Parola, insieme accogliamo il Pane della vita e ci incamminiamo sulla via dell’amore. Le parole di Luca riguardano la comunità dei credenti, la Chiesa, perché nessuno può essere cristiano da solo: la liturgia della Parola di oggi suscita, allora, in noi un sogno, un desiderio, un progetto di Chiesa. Una Chiesa capace di essere serva dell’uomo e del mondo, una Chiesa degli ultimi posti, che invita tutti, soprattutto coloro che non possono o non sanno ricambiarla. Una Chiesa che esce, capace di «una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione», come afferma papa Francesco su questa scia nell’esortazione Evangelii gaudium: sogniamo una Chiesa capace di far trasparire la gioia della festa che scaturisce dall’incontro con Dio, una Chiesa capace di invitare ogni uomo e ogni donna alla vita che il Vangelo fa nascere. Una Chiesa sempre più capace di amare l’uomo concreto, con le sue fatiche, con i suoi slanci: questo è il posto più vicino a Dio, l’unico che valga la pena di conquistare.