Un giovane valdostano seguì le sorti della grande armata napoleonica, partecipando alle battaglie, entrando da vincitore nelle più belle città europee, assaporando l’inebriante profumo della gloria. Ma nessuna terra, nessuna bellezza mai lo conquistò: nel suo cuore, c’era soltanto la sua montagna, il suo paese, la sua fumosa piccola baita. E ripeteva sempre tra sé un triste ritornello: «Valtournenche dove sei? Senza di te io sono perduto!».
Il giovane soldato partecipò alla campagna di Russia: steppe infinite senza orizzonti, enormi fiumi d’acque fangose, micidiali cavalcate di cosacchi, Mosca fulgente d’oro prima della conquista, avvampante di fiamme dopo. Poi la ritirata: neve, gelo, piste segnate dalle orme e dalle vittime, la battaglia della Beresina e la grande armata torma fuggente sotto lo scudiscio bianco della tormenta. «Valtournanche, senza di te io sono perduto! Desidero tornare al villaggio natio, non fosse altro che per morire!».
Sotto l’instancabile passo del giovane soldato si snodarono le strade polacche, boeme, austriache. Passarono giorni e giorni e finalmente un valico: di là l’Italia. Ma la strada consumava le scarpe e anche il corpo. Il montanaro era sempre più stanco, ma camminava, assorto, ripetendo: «Valtournenche dove sei? Senza di te io sono perduto!».
Ecco la pianura con le sue estenuanti strade. Il soldatino, ridotto a pelle e ossa, trascinava il passo tra la fanghiglia, col capo chino sul petto. Si sentiva mancare e allora, per ridare vigore alle sue membra sfinite, ripeteva fiocamente a se stesso: «Valtournenche dove sei?».
«Ma quelli non sono i monti di casa?». E poi il ruggito della Dora, che portava con sé l’acqua del torrente Marmore, l’acqua di casa sua! Il giovane montanaro si sciacquò in essa il volto e proseguì, nonostante i frequenti barcollii e il velo oscuro che scendeva a volte sui suoi occhi. Stringendo i denti, ripeteva a se stesso: «Valtournenche dove sei?».
Ecco il castello di Châtillon aggrappato alle porte della valle di Valtournenche. Un omino sfinito, lacero, emaciato passò come un fantasma per le vie del borgo spazzate dall’aria mattutina. Le montagne erano bianche di neve e il cielo azzurro. Com’era buona quell’aria che scendeva dai monti e sapeva di ghiaccio e d’abete! Come ravvivava i polmoni! Anche se l’anima del giovane viandante era legata al corpo da un esile filo. «Valtournenche dove sei? Senza di te io sono perduto!».
Il giovane si trascinava a stento sulla neve fangosa della strada presso i Grandi Mulini: ancora un passo, un altro ancora… Si aggrappò alla spalletta del ponte: l’acqua del Marmore sembra dirgli «Coraggio, vengo di lassù. La tua baita t’attende!». Poi l’uomo alzò gli occhi: il monte Cervino gli sorrideva di lontano tutto fulgido di sole, dalla bianca cappa invernale lacerata di chiazze dorate di roccia: il padre Cervino, il simbolo, il nume della sua vallata! Ora il giovane camminava di nuovo saldo sulle gambe, rigido, impettito, come quando sfilava dinanzi all’Imperatore.
Altri borghi furono lasciati alle spalle. Scese la sera e veli impalpabili fasciavano la montagna, la neve s’inazzurrava di riflessi di cielo, il gelo strozzava la voce del torrente. Ed ecco Valtournanche lassù che sorrideva nel palpito dei primi lumi della sera, ecco l’aguzzo campanile che svettava la sua candida guglia, ecco la sua baita natia da cui dipanava un filo di fumo. «Valtournanche sei ben tu!». Il soldatino si fermò, comprimendosi con le mani il cuore che voleva scoppiargli nel petto. Un radioso sorriso di felicità trasumanava il suo volto. Era arrivato, finalmente! Ora poteva anche morire.
La campana della Pieve suonava l’Ave Maria; nell’aria irrigidita dal gelo passava l’onda sonora, come azzurra preghiera di pace, di perdono, d’oblio. Il giovane soldato l’ascoltò e sentì nel cuore una grande quiete, come quando da fanciullo la mamma lo addormentava cantando una dolce nenia. In quell’istante l’anima sua s’involò oltre le vette, mentre il gelo gli fissava sul volto un gran sorriso di serena gioia.
Così lo trovarono l’indomani i valligiani e così lo portarono al cimitero, sotto un lento rintocco di campane fra il salmodiare delle preghiere e il fragore del Marmore. I montanari piangevano tutti, non di dolore, ma d’amore, perché sapevano che il loro soldatino era morto felice, alle soglie del villaggio natio, così come ogni montanaro lontano dalle sue valli vorrebbe.
La parabola – raccolta in Valle d’Aosta – precisa: «Ancora oggi, lungo la vecchia strada della valle, c’è un’antica, grigia croce di legno che, nella buona stagione, ha sempre qualche mazzolino di fiori silvestri ai suoi piedi. Quella croce ricorda il commovente episodio di amore di un soldatino per la sua montagna.
Illustrazione di M. Poggi