Giovedì mattina, nella cattedrale di Belluno il vescovo emerito monsignor Giuseppe Andrich rende grazie a Dio per i suoi venti anni di ordinazione episcopale. In tale occasione mi piace ricordare quel suo conterraneo che gli fu in parte predecessore, per aver retto la diocesi di Feltre a metà del Settecento: Giovanni Battista Bortoli.
Nacque a Venezia il 21 luglio 1695, ma i suoi genitori, Cipriano e Girolama, si erano da poco trasferiti in laguna per motivi lavorativi, lasciando Cogul, frazione della vasta Pieve di Canale d’Agordo. Avviato agli studi giuridici, Bortoli si addottorò in utroque iure a Padova.
A breve distanza di tempo, il 24 settembre 1718 venne ordinato sacerdote per le mani del patriarca di Venezia Pietro Barbarigo. Fin dagli inizi del suo sacerdozio mostrò di essere portato più allo studio, che non all’attività pastorale; fortunatamente il Barbarigo valorizzò tale inclinazione del Bortoli e gli permise di continuare a studiare, cosicché il giovane prete dopo il diritto si dedicò alla teologia, sempre a Padova, e il 14 febbraio 1725 venne proclamato dottore in teologia.
Mentre l’anno volgeva al termine, Benedetto de Luca, suo intimo amico, veniva nominato vescovo di Ceneda. Il nuovo presule chiamò il trentenne sacerdote a collaborare con lui come vicario generale e canonico teologo della cattedrale.
Sei anni dopo, grazie alla sua prima pubblicazione su un argomento giuridico, venne chiamato a Padova a ricoprire la seconda delle due cattedre di diritto canonico; dopo otto anni, all’inizio del 1739, veniva promosso a ricoprire la prima cattedra di diritto canonico. Per sedici anni la sua vita si dipanò tra lo studio del diritto, le lezioni a Padova e la predicazione a Ceneda. In una importante lettera ricorderà quegli anni impegnati nell’imparare studiando e insegnando come il periodo più bello e fecondo del suo ministero.
Era il 18 dicembre del 1747 che Bortoli venne nominato vescovo di Feltre e appena tre giorni dopo fu consacrato vescovo a Roma dal patriarca di Aquileia, il cardinale Daniele Dolfin. A Feltre si impegnò a svolgere la visita pastorale, ad incrementare l’insegnamento del Seminario, intervenne nella disciplina del clero. Non tralasciò l’attività a lui più congeniale: lo studio. Egli sentiva di poter servire al meglio la Chiesa con le doti che gli eran proprie. Era a Feltre da due anni che pubblicò un manuale di diritto canonico (Institutiones iuris canonici) e poi un’opera in cui contrattaccava una delle tesi care all’ecclesiologia gallicana: la fallibilità del magistero dei singoli papi.
Forse per i suoi interventi disciplinari, forse per il suo temperamento determinato, cominciarono a comparire sui muri di Feltre delle pasquinate contro di lui. I toni di questi volantini andarono in crescendo: da irrispettosi a ingiuriosi fino a essere calunniosi. In sua difesa si schierarono apertamente il Maggior Consiglio cittadino, il rettore veneto, che fece ricorso in suo favore al Consiglio dei Dieci di Venezia, e, cosa che ha del miracoloso per l’epoca, il Capitolo dei canonici.
Ma ormai Bortoli era esacerbato, a metà del 1755 scrisse direttamente al Papa. Diceva espressamente: «contro la mia volontà ho accettato questa cattedra e ora volentieri vi rinuncio», si paragonava a Gregorio di Nazianzo, il celebre teologo del IV secolo, che sfiancato da tanta ostilità aveva dovuto abbandonare il seggio di Costantinopoli. Al Papa diceva espressamente che non cercava altre sedi, che non chiedeva remunerazioni economiche, solo ritirarsi a studiare, lasciare una situazione insostenibile, tanto che esclama: «mendicare in qualsiasi altro luogo è di lunga preferibile che vivere nell’abbondanza a Feltre».
Benedetto XIV, il principe dei canonisti del Settecento, che per il Bortoli nutriva stima, lo trattò con tutti gli onori al momento in cui lasciò Feltre (1757): lo nominò arcivescovo di Nazianzo (sancendo così il paragone che Bortoli aveva fatto), gli riservò una cospicua rendita dai redditi dell’episcopato di Feltre, lo nominò segretario di un dicastero della curia e consultore di un altro.
A Roma Bortoli si legò al vivace circolo dei Giansenisti, animato da membri cospicui per incarichi curiali e finezza culturale: i cardinali Domenico Passionei e Neri Maria Corsini, monsignor Giovanni Bottari prefetto della Biblioteca Vaticana. Bortoli era favorevole ai provvedimenti dei Borboni contro i gesuiti e pubblicò un opuscolo, nel quale sosteneva che il papa era obbligato in coscienza a consentire ai principi europei di sciogliere la Compagnia di Gesù.
Il vescovo Bortoli morì a Roma il 14 marzo 1776: aveva fatto in tempo di vedere la tanto da lui auspicata soppressione della Compagnia di Gesù.
don Claudio Centa