Un inno alla pace, tra gli uomini e con il creato, condiviso un centinaio di camminatori, di tutte le età, valligiani e ospiti. Insieme hanno risalito a piedi, nella mattinata di sabato 20 luglio, la suggestiva val San Nicolò, una valle laterale della val di Fassa, lungo i sentieri un tempo battuti dai soldati della Grande Guerra.
A guidare la loro “marcia della pace”, nel cartellone di “Ispirazioni d’estate”, tre vescovi: quello di Trento, mons. Lauro Tisi; quello di Belluno-Feltre, mons. Renato Marangoni; e quello di Treviso, mons. Michele Tomasi; accompagnati dai parroci della valle e dal sindaco di San Giovanni, Giulio Florian, con ampio coinvolgimento logistico dei vigili del fuoco volontari.
Il vescovo Lauro introduce il cammino, stigmatizzando lo «sdoganamento di parole di odio, che non ricevono alcuna riprovazione, parole che feriscono e portano divisione»; e non omette un riferimento allo sguaiato progetto del candidato presidente Trump, pur scampato a un atto di odio, a immaginare la «più grande deportazione della storia». L’arcivescovo conclude sottolineando come «l’iniziativa di oggi sia un segno fortissimo di pace voluto dalla val di Fassa, di cui essere grati ai promotori e ai partecipanti».
Lungo il percorso, i camminatori ascoltano tre ricche testimonianze di pace e di riscatto. La prima è quella di Daniel Uche, un nigeriano del Biafra, scampato da una guerra che a soli undici anni lo ha obbligato a imbracciare il fucile; due volte migrante sulle rotte tra il Sahara e Lampedusa, un passato in carcere, che ora a Trento studia economia e fa il volontario con gli ex detenuti.
Poi la tappa per ascoltare il prete ortodosso ucraino padre Pavel Melnyk, fuggito con la moglie e i quattro figli a causa dell’invasione russa e ora grato a chi lo ha accolto a Riva del Garda; colpisce nelle sue parole l’assenza di espressioni di odio e di rabbia. Tanto dolore, ma nessun odio.
Da ultima parla suor Maria Martinelli, missionaria comboniana trentina, che da 32 anni opera in Africa, e opera veramente, perché è anche «chirurga di guerra». Con franchezza denuncia il ritorno dell’antico assioma latino «Si vis pacem para bellum»: «È una menzogna che ancora si rincorre nei summit politici attuali. Non tiene conto che le conseguenze della guerra non sono solo distruzione e morte, ma fanno indietreggiare un paese di 50 anni». Soggiunge: «Le ricchezze dell’Africa sono la sua maledizione, perché sul terreno africano oggi ci sono potenze esterne che combattono per le risorse». Queste guerre rallentano lo sviluppo, degradano il suolo, lo espongono ai cambiamenti climatici: attesta il trasferimento di interi villaggi, a causa dell’innalzamento del Nilo.
Negli ultimi 15 anni, suor Maria è stata in Sud Sudan, uno stato nato nel 2011, ma ridotto a un paese di profughi: su 12 milioni di abitanti, la metà vive fuori dal contesto in cui è nato. «I campi profughi sono un disastro umanitario: si sta in tenda ad aspettare la distribuzione del cibo. Poi a causa della guerra di Putin, non arriva il grano. Le scuole non funzionano. Che futuro c’è per le famiglie?». Ma suor Maria vuole restituire speranza a un popolo divorato da una guerra «voluta da altri e combattuta dagli africani e contro gli africani». E indica una speranza: «Vedo nei giovani, se sapremo garantire loro l’accesso alla formazione l’unica grande speranza per il futuro. È vero che i giovani africani sono manipolabili, però alcuni si stanno svegliando per studiare. Hanno capito che l’istruzione può dare qualcosa di diverso. Anche le donne stanno chiedendo cambiamenti».
Nell’ultima tappa, la riflessione del vescovo Michele, che è stato tra gli organizzatori della recente Settimana sociale dei cattolici in Italia sul futuro della democrazia, tenutasi a Trieste all’inizio di luglio. Cita brevemente papa Francesco, ma sottolinea un passaggio del discorso di apertura del presidente Mattarella che, dopo aver citato la Populorum Progressio di Paolo VI, scandisce: «Anche per questo l’esercizio della democrazia, come si è visto, non si riduce a un semplice aspetto procedurale e non si consuma neppure soltanto con la irrinunziabile espressione del proprio voto nelle urne nelle occasioni elettorali. Presuppone lo sforzo di elaborare una visione del bene comune in cui sapientemente si intreccino – perché tra loro inscindibili – libertà individuali e aperture sociali, bene della libertà e bene dell’umanità condivisa per ribadire l’urgenza della «partecipazione democratica come modo per prendersi cura dell’altro: solo operando per il bene di tutti facciamo anche il nostro bene».
La preghiera ecumenica conclusiva, davanti alla baita della parrocchia di Pera e con sullo sfondo il fragore delle cascate della val San Nicolò, «è un atto – sottolinea il vescovo Renato – di grande democrazia, perché Dio offre a tutti la possibilità di rivolgersi a lui». Lo scambio della pace tra tutti i partecipanti alla marcia è l’ultimo tassello di una giornata in cui «abbiamo avuto la conferma – saluta con sorriso riconoscente il vescovo Lauro – che Dio non smette mai di sorprenderci».