Ci troviamo nel mese di novembre che si è aperto con la commemorazione dei defunti. Questo ci dà occasione per prestare attenzione a un argomento molto interessante: la storia della morte, o meglio del morire. Si tratta di un tema, che cominciò a essere indagato da storici francesi appartenenti alla celebre École des Annales, sorta a metà del secolo e che ebbe uno dei suoi principali filoni di ricerca nella storia della mentalità. È doveroso ricordare i nomi e le opere pioneristiche di queste grandi studiosi: Philippe Ariès (1914-1984; La morte in Occidente, 1975), Pierre Chaunu (1923-2009; La morte a Parigi, secoli XVI-XVIII, 1977), Michel Vovelle (1933-2018; La morte e l’occidente. Dal 1300 ai nostri giorni, 1983). Non bisogna però dimenticare che vent’anni prima di loro, questo terreno vergine cominciò a esser esplorato da uno storico italiano, esperto dell’età moderna, in un’opera ponderosa: Alberto Tenenti (1924-2002; Il senso della morte e l’amore della vita nel Rinascimento (Francia e Italia), 1957).
Lo studio storico sulla morte umana distingue per chiarezza ambiti diversi, che si possono così distinguere.
La morte subita: è il puro fatto della morte. A questo livello l’indagine mette a fuoco l’incidenza della morte in una fase storica dell’esperienza umana. Lo storico, considerando una determinata epoca, come ad esempio gli ultimi secoli medievali, cerca di risponder a queste domande: Quali erano le cause più ricorrenti della morte? quale l’età media della vita? quali erano le malattie più abituali? quale incidenza aveva la mortalità infantile? Sino alla fine del Settecento la speranza di vita era breve: Prima di allora, in Europa circa il 50% di coloro che nascevano non raggiungevano i vent’anni.
La morte vissuta è l’insieme degli usi, delle devozioni, dei riti che si svolgono a partire dalla comparsa della malattia, attraverso l’agonia, la celebrazione funebre, la sepoltura. Si tratta del fare testamento, del momento delle pratiche funerarie, situazioni in cui si manifestano le idee collettive, vissute in quanto si fa parte di un gruppo.
La morte illuminata (il discorso sulla morte): si tratta del discorso organizzato sulla morte. Nella storia della penetrazione del Cristianesimo in Europa il discorso cristiano sulla morte penetra su un preesistente discorso religioso, ne soppianta alcuni aspetti, ma altri li purifica e quindi li mantiene; al discorso religioso andrà aggiungendosi, dall’epoca dei Lumi, un discorso laico sulla morte, condotto con categorie puramente filosofiche e/o scientifiche.
Accenno appena alle difficoltà che lo studioso incontra nell’affrontare questo genere di indagine. Lo storico si trova a combattere contro i silenzi. Nei secoli passati non vi erano le cartelle cliniche, sino al Seicento non c’eran nemmeno registri dei morti. E qui lo storico deve aver l’abilità di far parlare le fonti che ha a disposizione. Se è vero che la storia si fa con i documenti, è ancor più vero che essa si fa con le domande che si sanno porre alle testimonianze, magari ridotte, di cui si dispone. I documenti sono dei testimoni muti, l’abilità dello storico sta nel saperli interrogare, farli parlare.
In questo ambito lo storico della Chiesa cerca di illustrare una questione fondamentale: come la Chiesa ha evangelizzato il morire? La ricerca condotta sulle raccolte di prediche, sui testi di spiritualità, sui manuali di catechismo, si colloca nel terzo livello (la morte illuminata). Ma a esso è collegato il secondo livello (la morte vissuta): si possono cogliere le testimonianze del sentire la morte attraverso l’arte sacra, le devozioni popolari, i riti liturgici, le disposizioni dettate nei sinodi e nelle visite pastorali. Alla domanda che ho posto poche righe sopra offrirò cenni di risposta a partire dalla prossima puntata.
don Claudio Centa
(1 – continua)
Nella foto: Domenico Ghirlandaio, Funerali di santa Fina, 1475, San Gimignano (Siena), Chiesa collegiata.