Ha 60 anni, ma non li dimostra. La costituzione Lumen gentium del Concilio Vaticano II venne promulgata da Paolo VI il 21 novembre 1964, ma la sua attualità è stata rimessa in piena luce dal recente sinodo dei vescovi universale, che nel documento finale ha riconosciuto: «Il cammino sinodale sta mettendo in atto ciò che il Concilio ha insegnato sulla Chiesa come Mistero e Popolo di Dio […] In questo senso costituisce un vero atto di ulteriore recezione del Concilio».
La suggestione è stata ripresa nel messaggio del cardinale Pietro Parolin, con cui si è aperto martedì 12 novembre il convegno organizzato dalla Fondazione Vaticana Giovanni Paolo I in collaborazione con la Pontificia Università Gregoriana. Il porporato, presidente della Fondazione e Segretario di stato era infatti impegnato a Baku per la Cop29. Ha ricordato come il primo volumus programmatico del neoeletto Giovanni Paolo I vertesse proprio sull’eredità del Concilio, da portare avanti tra le sponde opposte di un avanguardismo che correva oltre i deliberata, e un tradizionalismo che – allora come oggi – rimpiangeva il regime di cristianità, ormai del tutto tramontato.
Dopo i saluti istituzionali delle autorità accademiche presenti, nell’Aula Magna dell’università di cui fu alunno il Papa bellunese si sono succedute sei relazioni.
La religiosa bolognese Maria Grazia Zunelli, che nella stessa università sta redigendo una tesi dottorale sulla visione ecclesiologica di Albino Luciani, ha illustrato la discussione che già prima del Concilio spostava la riflessione sulla Chiesa dalla societas perfecta, gerarchicamente strutturata sotto l’ordine sacro, al tema del popolo di Dio. Ha inoltre dato atto dell’interesse del giovane Vescovo di Vittorio Veneto per la vasta bibliografia circolante al suo tempo, sintomo della sua attenzione al dibattito innescato dall’avventura conciliare.
Di seguito, don Dario Vitali, relatore della tesi e docente ordinario di ecclesiologia nella stessa facoltà, ha dato prova della fedeltà di Luciani alla doppia ermeneutica di rinnovamento nella continuità, rileggendo e commentando il suo intervento in Concilio, ovvero il suo sostegno dato all’affermazione della collegialità episcopale, alla luce della costante prassi sinodale nella storia della Chiesa.
Quindi don Davide Fiocco ha illustrato la fitta attività di divulgazione del Concilio operata dal vescovo Luciani nella diocesi di Vittorio Veneto, come metodo per una ricezione dei dettati conciliari. Dopo la forte esperienza romana, da Vescovo che aveva partecipato al Concilio, Luciani diveniva Vescovo del Concilio, ossia custode del vero spirito di quella stessa esperienza.
Giovanni Vian, ordinario di storia del cristianesimo e delle Chiese a Ca’ Foscari, ha presentato alcuni spunti tratti da una sua monografia di prossima pubblicazione, che studia l’attività dei vescovi del Triveneto durante il Concilio: i 18 vescovi del Nordest numericamente contavano più di altri episcopati nazionali e manifestavano una spiccata vitalità, spesso unita a quella dei vescovi lombardi, guidati dall’arcivescovo Montini. Non è un caso che nel 1966 il cardinale Urbani venne scelto da Paolo VI come primo presidente della neonata Conferenza Episcopale Italiana; e poi monsignor Pangrazio, arcivescovo di Gorizia, ne divenne segretario generale. Monsignor Luciani fin dai primi passi venne coinvolto in questa organizzazione, come emerge dagli Acta e dal diario del Concilio, vergato dallo stesso Vescovo di Vittorio Veneto, che si schermiva a modo suo: «Farei così volentieri a meno». Significativo anche il suo sostegno all’intervento che monsignor Gargitter aveva fatto in aula contro chi pretendeva forti pronunciamenti di condanna. Alla luce delle carte di archivio, colpisce che Luciani sia succeduto prima a Urbani a Venezia e poi a Montini sul Soglio di Pietro.
Mauro Velati, membro del Comitato scientifico della Fondazione, si è soffermato sul post-Concilio a Venezia, durante la crisi successiva alla contestazione del Sessantotto, che produsse rivolgimenti sociali e culturali che interessarono anche il campo religioso, introducendo paradigmi politici che erano estranei al contesto ecclesiale. Se Lercaro a Bologna e Pellegrino a Torino si mostrarono più progressisti, Luciani fu più prudente, con un’indole pastorale ispirata a san Francesco di Sales. Dalle sue agende del periodo emerge la preoccupazione per un avanguardismo fatto di fretta e ansia di cambiamenti, che produceva «stramberie conciliari». A chi chiedeva di abbattere le strutture, rispondeva con… l’apologo del carciofo: «Togli, togli, togli… non resta nulla». Non erano arretramenti, ma preoccupazioni per una ricezione del Concilio che diventava deriva, dimenticando il Vaticano II e vagheggiando un “Vaticano III”.
Da ultimo Gilfredo Marengo, dell’Università Lateranense, ha riflettuto sull’adesione di Luciani all’iniziativa di Paolo VI che nel 1967 indisse l’anno della fede. È evidente la sua inquietudine per la crisi dottrinale della Chiesa di quegli anni.
Di Giovanni XXIII, che aprì il Concilio, e di Paolo VI, che guidò le ultime tre sessioni del Concilio, Luciani fu successore, assumendo significativamente il doppio nome di Giovanni Paolo. Come primo punto programmatico nel messaggio Urbi et orbi del 27 agosto disse: «Vogliamo continuare nella prosecuzione dell’eredità del Concilio Vaticano II, le cui norme sapienti devono tuttora essere guidate a compimento, vegliando a che una spinta, generosa forse ma improvvida, non ne travisi i contenuti e il senso, e vegliando altrettanto a che forze frenanti e pavide non ne rallentino l’impulso di rinnovamento e di vita».