Abbiam visto nella puntata precedente che solo molto tardi i vescovi cominciarono ad esser nominati dal Papa. Lo stesso vale per i parroci: nei secoli passati era tutt’altro che scontato che fosse il vescovo a poter scegliere i parroci. Vi era un istituto canonico chiamato giuspatronato, che riservava la scelta dei parroci o a nobili, o a ecclesiastici o alla popolazione locale. Accadeva nel Medioevo e nell’età moderna che in tantissime diocesi il vescovo poteva scegliere solo una piccolissima porzione dei parroci. Alla fine del Quattrocento a Worms, sulle 243 parrocchie che contava la diocesi, il vescovo poteva assegnarne solamente due. Ad Augusta il vescovo poteva scegliere i parroci solo dell’8% delle parrocchie della diocesi.
Simile era la situazione in Francia. Delle 30 parrocchie che contava la città di Parigi nel Quattrocento, il vescovo poteva provvedere alla nomina dei parroci solamente in sei; nelle altre la nomina veniva fatta o dal Capitolo, o dall’Università o dall’abbazia di Saint-Germain-des Prés. Assai frustrante la situazione per l’arcivescovo di Lione: su 392 parrocchie che contava la diocesi egli poteva scegliere il parroco solo per 21 di esse. Durante il concilio di Trento, nel 1547, il vescovo francese di Clermont, Guillaume du Prat, disse che non era motivato a risiedere in diocesi, dal momento che non poteva scegliere quasi nessuno dei suoi parroci.
Così a Belluno, almeno dall’epoca bassomedievale, il Capitolo dei canonici vantava il diritto di nominare i due sacristi della cattedrale (cioè i parroci della città) e i curati delle cappelle suburbane, appartenenti alla pieve della cattedrale: Cusighe, Sargnano, Bolzano, Tisoi, Libano e Salce. Ciò dava periodicamente origine a conflitti col vescovo. Il primo vescovo a contestare questa prerogativa fu Gorgia Lusa (1328-1348), già intraprendente arcidiacono del Capitolo di Feltre. Egli non accettava questo uso, considerato lesivo della sua autorità, mentre il Capitolo ne reclamava l’esercizio quale antico privilegio. Nel 1346 la vertenza venne rimessa al giudizio del vicario generale, Giacomo Brusadazzi, da Brescia, il quale stabilì che i due sacristi, i rettori delle sei curazie del suburbio e i cappellani dei tre ospizi della valle del Cordevole erano pienamente soggetti al Capitolo.
L’altro episodio, degno di memoria, di queste ricorrenti contrapposizioni tra vescovo e Capitolo si ebbe nel Settecento, al tempo del vescovo Giovanni Battista Sandi (1756-1785). Si trattò di una diatriba accesa combattuta a suon di libelli eruditi. Nel 1772 il vescovo pubblicava in forma anonima un libello dal titolo Allegazione a difesa della Ecclesiastica Giurisdizione de’ Vescovi contro le pretese del Capitolo Canonicale della Città di Belluno; in esso il presule, richiamandosi al concilio di Trento, sosteneva che il clero della città doveva essere soggetto alla sua sola autorità, senza nessuna ingerenza del Capitolo. Due anni dopo, il sacerdote Priamo Alpago, rettore della curazia di Cusighe, pubblicava un trattatello di replica dal titolo Apologia delle esenzioni, privilegi e giurisdizioni del Capitolo de’ canonici di Belluno. Nella prima parte delle quasi 200 pagine del libro, Alpago faceva sfoggio di erudizione storica citando diplomi imperiali e privilegi pontifici rilasciati al Capitolo bellunese; si richiamava agli statuti capitolari dei secoli precedenti e a sentenze ecclesiastiche a favore dei diritti del Capitolo. Nella seconda parte, con ragionamenti speciosi e sofismi, l’Alpago sosteneva che il Concilio di Trento non aveva affatto voluto in via di principio e in modo assoluto abolire le esenzioni dei Capitoli all’autorità del vescovo. Infine nella terza e quarta parte l’Alpago sosteneva le concrete prerogative dei canonici bellunesi che non potevano essere messe in discussione: il Capitolo era indipendente dal vescovo nel governo della cattedrale ed era pienamente autonomo nel nominare i rettori delle curazie del suburbio.
Il Sandi si dimostrò un gran signore: non serbò rancore e non cadde nella piccineria di cercare rivalse. Anzi nel 1777, in segno di pace, concesse ai canonici l’uso di insegne che nell’abbigliamento li rendeva quasi simili ai vescovi: rocchetto, cappa magna e croce pettorale con l’effigie di San Martino. Tale concessione venne corroborata con l’approvazione del Doge. Verso la fine del suo episcopato, il Sandi concesse infine ai canonici di fregiarsi del titolo di “monsignori”.
La prerogativa capitolare di nominare i parroci cittadini e suburbani cessò per intervento di Roma su interpellanza del vescovo Muccin. Nel 1956 la curia romana decretò che il Capitolo non aveva giustificazioni fondate a tale uso: è così da meno di settant’anni che quelle sei parrocchie vengono assegnate dal vescovo.
don Claudio Centa
Nella foto: Bolzano bellunese; tra le sei curazie della pieve della cattedrale risulta avere l’attestazione più antica risalente all’anno 1300.