Visita al Museo dei sogni del 1° aprile 2024
27-09-2024
- L’omelia sgorga da un cuore pasquale. Vi riconosciamo il cuore della Chiesa che accoglie l’annuncio della Pasqua. Possiamo pensare a Maria di Magdala nel racconto del IV evangelo. Il Risorto la investe di risurrezione: «Va’ dai miei fratelli». Il mondo è già trasfigurato in questo primo incontro, da questo annuncio, dalla missione che è affidata a lei. Il card. Pietro Parolin testimonia e rappresenta questo cuore della Chiesa, ma immediatamente fa riferimento al cuore di papa Francesco: «Il Papa vi conosce, vi vuole bene e vi manda la sua benedizione». Don Pietro – ora lo chiamerò così, seguendo l’esempio di Gesù che chiama per nome: «Maria» – in questa confidenza di Francesco è anticipato già il nucleo esplosivo della Pasqua che poi approfondirà: “risurrezione” è uguale ad “amore”, dunque amare è risorgere. È davvero commovente quello che ha fatto don Pietro: ha collocato la Comunità Villa San Francesco nella Pasqua di Gesù. Egli l’ha pensata come “luogo di risurrezione”! Lo svela alla fine dell’omelia: «Io sono qui perché, alla fine, mi è sembrato bello vivere la Pasqua 2024, segnata da tante manifestazioni di morte, in un luogo “pasquale”, in un luogo di risurrezione e vita».
- Don Pietro approfondisce, poi, l’augurio: Buona Pasqua! Riprende il saluto orientale che annuncia: Cristo è risorto! A me pare molto bello questo spostamento di “messa a fuoco”. Cosa significa “buona Pasqua” se simultaneamente non guardiamo a Gesù Cristo? È Lui il contenuto dell’augurio. Se non facciamo viva memoria di quello che è successo a Gesù, ci succede di svuotare l’augurio pasquale. È, dunque, decisiva la testimonianza che don Pietro riprende dal racconto degli Atti degli Apostoli, letto nella celebrazione dell’Eucaristia: «Gesù di Nazareth… che voi avete crocifisso … ucciso… Dio l’ha risuscitato, liberandolo dei dolori della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere». È qui la vicenda nuova che cambia il destino di tutta la storia abitata dai “dolori della morte” e da tutto ciò che ne consegue. Colpisce quello che l’apostolo Pietro fa notare: «perché non era possibile che la morte lo tenesse in suo potere». Vorrei dire con un riferimento a Roberto Benigni: è la sorpresa più grande che ci è riservata! Citando Sant’Agostino, don Pietro dichiara: «La fede dei cristiani è la risurrezione di Cristo». Dunque non è solo un educato e gentile augurio quel “buona Pasqua” che distribuiamo a tutti. È svelare il più grande segreto!
- Ora qui entriamo in una coraggiosa e – direi – strepitosa riflessione di don Pietro quando riconosce che «credere alla risurrezione di Gesù non è facile». Considera i “segni deboli” della fede. È un tratto di omelia molto esistenziale, che ci tocca tutti. È l’aspetto che ci svela tutto il vissuto di Gesù. Dobbiamo con coraggio dirci è proprio Gesù il “segno debole” della risurrezione e di ciò che Dio tuttora sta immaginando, creando, salvando, raccogliendo di tutta questa grande e travagliata storia umana. Gesù è il “segno debole” dentro una logica mondana e arrogante che impone violenza e crea ingiustizia, abbruttendo il mondo. Di conseguenza troviamo ovunque segni deboli della risurrezione di Gesù. Tra i primi, elencati da don Pietro: il sepolcro vuoto, il silenzio dei discepoli, la loro fuga, il loro nascondersi, le domande di Maria di Magdala, il suo pianto e, poi le apparizioni fatte a pochi, dove anche c’è l’incertezza di riconoscere Gesù… Dice don Pietro che Gesù «appare soltanto a poche persone e fuori dai riflettori». Gesù si ritrova in questi “segni deboli” che, alla fine, siamo tutti noi… La strada percorsa dal Figlio di Dio, fin dall’annuncio a Maria, è così sintetizzata da don Pietro: Egli non umilia e non schiaccia nessuno, «non percorre questa strada. Egli si comporta umilmente nella gloria della risurrezione come nell’annientamento del Calvario».
- Nasce qui la Chiesa, quello che noi oggi siamo: un segno di debolezza nel senso e nello stile che Gesù ha vissuto. Don Pietro ci costringe a un interessante “esame di coscienza”. Nell’omelia dice: «[Gesù] sceglie di affidare la verità della sua risurrezione alla testimonianza di pochi amici, alle donne che non avevano mai smesso di credere in lui e ai discepoli che lo avevano seguito durante la sua vita». Tutte queste persone riferite da don Pietro lo hanno fatto – possiamo dire – “debolmente”. Sono “segni deboli”. Ecco la nostra Chiesa, o meglio la Chiesa che noi siamo: debole perché amata e amante! Vi leggo una piccola parte di un libretto per me sensazionale – intitolato: il dio morto così giovane – scritto da un giornalista francese, Frédéric Boyer. Davvero mi piace che Gesù si sia affidato a dei “segni deboli”: eccoci qui! [leggere pp. 32-33]: «Alla fine, quel poco che Gesù ha lasciato per farsi riconoscere da noi dipende dall’amore di cui noi siamo capaci gli uno con gli altri. […] Pochi mezzi ma senza i quali non si saprebbe nulla, pochi mezzi affidati alle cure di alcuni, inizialmente alle buone cure di qualcuno, alle buone e povere cure di alcuni soltanto, ma senza le quali non ci saremmo stati, neppure uno solo tra di noi. […] Ciò che ha lasciato è la sua parola raccolta e ridetta da altri […] è la sua parola parlata ed è lui stesso raccontato da altri. […] Forse è questo il senso profondo della sua morte e delle sue apparizioni ai suoi amici. Non ha più riconoscimento, non ha più signoria possibile se non a partire dalla parola di quelli che ha lasciato e dalla parola a venire di tutti quelli che non l’hanno mai visto né conosciuto. È fragile come le nostre parole che si scambiano e si cercano».
- Per ultimo possiamo considerare la convocazione che don Pietro ci fa: «Lavoriamo insieme, in maniera ancora più stretta ora, dopo che ci siamo conosciuti personalmente e un po’ frequentati». Notate che è il Segretario di Stato di papa Francesco a dirci questo! Due le modalità per farlo: «Ciascuno nel suo ruolo, ma insieme…»; e poi: «… per ampliare con la nostra testimonianza, gli spazi della risurrezione di Gesù nel nostro mondo». È questo anche un vento di fiducia liberato a gonfie vele ed è un grido di speranza «nel nostro mondo». Sentite la carica di affetto e, dunque la promessa di risurrezione che c’è in quest’ultima parola: «nel nostro mondo».
+ Renato Marangoni