1Sam 1,20–22.24–28; Sal 83 (84); 1Gv 3,1–2.21–24; Lc 2,41–52
“Da dove” siamo partiti, o meglio “da chi” siamo partiti nel compiere il pellegrinaggio che dalla chiesa di santo Stefano ci ha portati qui in Cattedrale?
Siamo partiti da Lui. Il racconto evangelico della festa odierna della Santa Famiglia ce lo descrive così: «Il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. […] Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio» (Lc 1,43.46).
Sì, proprio da Lui siamo partiti, condividendo con Maria e Giuseppe la ricerca che li ha rimessi in cammino verso Gerusalemme. Gesù poi «scese con loro e venne a Nazareth». Ci colpisce la nota dell’evangelista Luca: «E Gesù cresceva in sapienza età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (1,52).
A circa trent’anni, dopo l’incontro con Giovanni Battista, Gesù lo ritroviamo a Nazareth «dove era cresciuto». Ed ecco che nella sinagoga, nel suo turno di lettura della Scrittura, sceglie un passo di Isaia: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore». Ed ecco la sua parola che inaugura definitivamente – o meglio, porta a compimento – il Giubileo di tutta l’umanità: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,18–21).
Ecco perché siamo partiti da Lui, venuto per «proclamare l’anno di grazia del Signore». Abbiamo iniziato il cammino dopo le sue parole in risposta a Tommaso: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio».
L’“anno di grazia” abbozzato già nel libro del Levitico, che non sappiamo come e quanto sia stato realmente attuato nella vicenda travagliata del Popolo di Dio – evocata dal cammino trepidante di Maria e Giuseppe alla ricerca del figlio – viene assunto da Gesù come la novità inaspettata del Vangelo che egli annuncia, un tempo di salvezza e di speranza, come azione d’amore che non ha limiti, come eccesso di misericordia da parte di Dio, come liberazione radicale da ogni forma di schiavitù e da ogni possesso assoluto come quello della terra, come promessa di nuova alleanza con Dio, come cura e prossimità del Padre che è possibile vedere nel volto stesso di Gesù, così nel suo operare e nelle sue parole, come stile e missione per i suoi discepoli, come via del dialogo e della pace a cui dedicarci ovunque.
Da allora la nostra storia è “giubilare”, poiché è collocata nella vicenda di Gesù, in quell’“anno di grazia” che ha inaugurato essendo “venuto a questo mondo”, dato alla luce da Maria, diventando per noi “via, verità e vita”. La sua Pasqua ha consegnato definitivamente alla nostra vicenda umana un destino per cui la storia è salvata in tutti i suoi risvolti drammatici. I Giubilei della storia che siano ordinari – ogni 25 anni – o straordinari intendono essere una concentrazione simbolica e rituale della porta della vita ormai definitivamente aperta. Ecco dove si radica la speranza che papa Francesco ci affida come orizzonte a cui affidarci e a cui dedicarci.
Questo Giubileo 2025 si pone come segno intenso e opportunità straordinaria dentro il grande Giubileo della storia, inaugurato da Cristo, di cui siamo discepoli e annunciatori. La parola tradizionale usata – a volte abusata – nella circostanza di un Giubileo come quello che apriamo è “indulgenza”. È una parola bisognosa di essere purificata e va sperimentata come vita rigenerata da Dio che «ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito», perché il mondo fosse «salvato per mezzo di lui» (cfr. Gv 3,16–17); inoltre va sperimentata come continuo allenamento a tenere lontane le forze e le lusinghe del male e come aiuto vicendevole a ristabilire la bontà di ciò che si è corroso con la nostra adesione al male; va sperimentata come laboriosa ricerca e attuazione del bene, dal momento che Dio ce ne vuole all’infinito.
“Chiedere l’indulgenza” è un atteggiamento di dignitosa umiltà che ci fa confidare nell’aiuto altrui; è la possibilità di ritrovare fiducia in noi stessi e negli altri per rialzarci da ogni caduta; è la speranza di cui farci pellegrini perennemente perché la nostra vita conta assolutamente per Dio, come dice il libro della Sapienza: «Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano; le creature del mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c’è veleno di morte» (1,14); è ritenere che la nostra salvezza è sempre la salvezza degli altri.
È qui il nostro essere Chiesa in “cammino sinodale”, dunque pellegrina di speranza, perché libera di chiedere indulgenza e capace di condividerla, cercando ad ogni passo di diventare “Chiesa indulgente”, qui nel nostro territorio innanzitutto.
Lo auguro a ogni comunità della nostra Chiesa di Belluno-Feltre, unitamente ai confratelli nel ministero.