«Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te»: l’evangelista Luca è uno psicologo raffinato e ci conduce nel cuore, nella mente, nella coscienza di questo giovanotto sconsiderato e ribelle. Siamo resi partecipi delle inquietudini di questo ragazzo, che, attratto dai piaceri della vita e dal lusso, aveva abbandonato la casa di suo padre e ne aveva dissipato l’eredità. Nasce, nel cuore di questo giovane, la nostalgia di casa: paradossalmente, è meglio essere un salariato, un servo a casa propria, che vivere da liberi in mezzo ai maiali.
Il fratello maggiore, che è rimasto presso la casa paterna e contribuisce attivamente al management familiare, ha nel cuore più o meno lo stesso tormento: è un corpo che attraversa le stanze, ma non riesce a sentirsi a casa. Vive non per amore, ma per dovere: è uno straniero in casa propria. Tra lui e le persone che lavorano nella casa non c’è differenza, e questo non per volontà del padre ma per la sua mancanza di coraggio, per il suo timore di chiedere, per la sua pigrizia. Appartiene all’essere umano il desiderio inquieto di una casa, di affetti, di luoghi, di persone care: abita il cuore dell’essere umano la sete inesausta d’amore, quell’amore che trasforma le mura domestiche in ciò che chiamiamo casa.
È in noi una nostalgia di una bellezza più grande, di una vita più intensa, di una gioia piena: è in noi il desiderio di essere attesi, di essere visti da lontano, di essere accolti con un abbraccio e una festa. Non è un movimento vuoto, una condanna dell’esistenza, uno slancio destinato ad essere deluso: Dio si muove verso di noi. Quando ci avviciniamo a casa, sia che siamo figli perduti sia che non ce ne siamo mai andati – ma questo, lo possiamo davvero affermare con sicurezza? –, Dio ci viene incontro: non importa se la distanza è tanta, se siamo all’orizzonte sporchi di fango, macilenti e provati dalle nostre gozzoviglie o se siamo vicini, appena fuori di casa, magari arrabbiati perché non comprendiamo l’agire di Dio. Dio esce. Dio colma la distanza tra noi e Lui. Dio la riempie di amore.
È l’annuncio straordinario che Paolo grida affida alla comunità di Corinto: «Dio ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione». Nella mentalità biblica, il punto più lontano da Dio è la morte: e Dio l’ha abitata. Dio ci ha atteso in capo al mondo, per ricondurci a casa. L’arrivo nella Terra Promessa, raccontato dal libro di Giosuè, è il nostro destino: l’esodo definitivo, promesso dalla Scrittura e attuato nella Pasqua di Gesù, l’esodo dall’Egitto della morte e del peccato – che della morte è caparra e anticipazione –, il ritorno a casa è il cammino che ci aspetta se ci lasciamo riconciliare con Dio, se accettiamo questo Suo amore, se ci lasciamo venire a prendere.
Sappiamo che non è sempre semplice: l’invito di Paolo a lasciarci riconciliare con Dio, la vergogna del figlio minore e la rabbia del figlio maggiore ci lasciano intuire che l’amore di Dio non è logico. Che noi, istintivamente, non agiremmo così. Che abbiamo bisogno di essere rinnovati profondamente per diventare nuova creatura, per sintonizzarci sulla frequenza del cuore di Dio, per accettare che l’amore non può stare fermo, ma deve correre incontro, deve uscire. Che l’amore aspetta, sperando contro ogni speranza. Che l’amore è festa che coinvolge anche chi se n’era andato sbattendo la porta.
A noi è rivolta oggi la promessa di una gioia incontenibile e piena, della vita per tutto e per sempre, che la Chiesa non riesce a trattenere, che la liturgia esprime quasi come una confidenza segreta che rischiara le nostre giornate, che alimenta il nostro cammino, che orienta il nostro cammino verso casa: «Figlio, figlia, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo».