santi patroni
Il patrono di Belluno
Secondo la tradizione locale, la dedicazione della cattedrale di Belluno a san Martino sarebbe avvenuta nel 547. «Ma chi prese una decisione destinata a durare tanto a lungo, segnando la storia della comunità cristiana bellunese? Una tradizione indiscussa, già ampiamente accolta da Giorgio Piloni, sempre attento e (per lo più) attendibile, attribuisce tale scelta ad un vescovo di Belluno, il secondo di nome Felice» (P. Conte – M. Perale, 90 profili di personaggi poco noti di una provincia da scoprire, Belluno 1999, 113).
Scrive infatti lo storiografo Piloni all’anno 548: «Fioriva [Venanzio] Fortunato vescovo di Poitiers ed era Felice vescovo di Belluno amicissimo di questo Fortunato, il quale ritrovandosi con Fortunato in Ravenna con gran dolore degli occhi, fu fatto sano con l’oglio che ardeva nel tempio del beato Martino; in memoria del qual glorioso Santo ordinò che fosse dedicato il tempio maggior della cittade a Santo Martino. Fu questo Episcopo Felice sepolto nella chiesa di Santa Maria di Val de Nere nel villaggio di Bolago, territorio bellunese, dove si era ridotto ad habitare per fuggire i bellici tumulti e per star lontano dalli Arriani» (Historia della Città di Belluno, cit. ibidem). Non c’è unanime consenso tra gli storici nell’interpretare questa notizia, visto che la stessa guarigione è ricordata da Paolo Diacono per un omonimo vescovo di Treviso, lui pure amico di Venanzio Fortunato (cfr. Historia Langobardorum II.13). A ogni modo, l’antico vescovo di Tours divenne il patrono della città e della diocesi bellunese.
Il suo biografo
Quasi tutto ciò che sappiamo della personalità di Martino è stato tramandato da Sulpicio Severo che – vissuto a stretto contatto con il vescovo – poté raccogliere notizie, porre domande al Santo e interrogare i testimoni. Tra il 395 e il 397, egli pubblicò la Vita Sancti Martini. Il protagonista era ancora vivo e, in quell’epoca, era ben strano pubblicare la biografia di un vivente. Però lo fece e dopo la morte, volle completare lo scritto con tre lettere aperte. Verso il 404-405, compose anche i Dialoghi, resoconto di una lunga chiacchierata tra amici che mettevano a confronto le gesta dei monaci orientali e quelle di Martino.
Martino, piccolo Marte
Per difendere il suo eroe, Sulpicio ha un po’ imbrogliato le carte: ha limato e accorciato il passato da militare, nascondendo la data di nascita di Martino e rendendolo più giovane di vent’anni. Gli ecclesiastici non vedevano di buon occhio chi aveva servito in armi. Di fatto Martino era stato militare e non per soli cinque anni, come cerca di farci credere Sulpicio.
Era nato verso il 316-317 a Sabaria in Pannonia (oggi Szombathely, in Ungheria). Il padre era un tribuno dell’esercito romano e, fin nella scelta del nome, progettava per il figlio la carriera militare: doveva essere un “piccolo Marte”, dio della guerra. Quindi la famiglia si trasferì a Pavia, dove Martino venne ammesso tra i catecumeni. Ma a quindici anni, pressato dal padre e dalle leggi che obbligavano alla leva i figli dei militari, Martino entrò nell’esercito e venne assegnato al corpo di guardia dell’imperatore, le scholae palatinae.
In questo periodo si colloca l’episodio del mantello condiviso con un povero che, alle porte della città di Amiens, supplicava i passanti. I commilitoni derisero Martino per quel povero mantello che gli restava; ma nella notte, egli sognò il Cristo, vestito dell’altra metà del mantello, che proclamava: «Martino, ancor catecumeno, mi ha ricoperto con questa veste». Era lo stesso Gesù che nei vangeli aveva detto: «Ero nudo e mi avete vestito» (Mt 25,40). Verso i diciott’anni (nel 334), Martino ricevette il battesimo. Restò in servizio nell’esercito per altri ventidue anni: il suo reparto non era impegnato nei combattimenti, ma nella custodia del principe.
Da soldato a cercatore di Dio
Nei primi mesi del 356, a Worms, dopo quarant’anni di regolare servizio, Martino si congedò e si mise alla scuola di Ilario di Poitiers (315-367). Questi tentò di ordinarlo diacono, ma Martino accettò soltanto l’ordine minore dell’esorcista: e infatti lottò contro il demonio per tutta la vita.
Ilario invece in quei mesi combatteva contro l’eresia ariana e per questo venne esiliato in Frigia. A Martino non rimase che mettersi in pellegrinaggio: raggiunse la Pannonia e convertì la madre. Tornò a Milano, ma il vescovo ariano Aussenzio (355-374) lo costrinse a fuggire. Allora si ritirò con un compagno di avventura sulla piccola isola di Gallinara, davanti ad Albenga, che diventò il primo eremo occidentale.
Nel 361 intanto Ilario era ritornato in sede: Martino lo raggiunse a Poitiers, per installarsi a Ligugé: attorno a lui si raccolsero altri anacoreti e questa può essere considerata la prima fondazione monastica d’Occidente.
Vescovo suo malgrado
La Chiesa di Tours era da tempo priva di vescovo: il 4 luglio 371 il popolo puntò su Martino. Per farlo uscire dal monastero, gli chiesero di soccorrere una donna ammalata. E invece lo condussero a Tours, acclamandolo vescovo. I vescovi del vicinato, intervenuti per la consacrazione, erano perplessi per la scelta: Martino aveva un portamento dimesso, non aveva cultura, il suo passato era compromesso nella vita militare. Ma la vox populi fu più forte: Martino divenne vescovo e lo fu per 26 anni. Vescovo suo malgrado, restò monaco nel cuore: prima tentò di continuare la vita ascetica nella sacristia della cattedrale; poi, nel 375, si spostò a circa due miglia dalla città, fondando il monastero di Marmoutier. Una novità per l’Occidente: vescovo e monaco allo stesso tempo, Martino divideva la sua giornata tra l’ascesi e l’impegno missionario nelle vicinanze di Tours, tanto che venne chiamato…
…“l’apostolo delle campagne”
Il suo primo atto episcopale fu un “discernimento degli spiriti”: di fronte a una tomba, erroneamente venerata come quella di un martire, Martino chiese al Signore di rivelare chi vi fosse sepolto. Nella preghiera gli fu rivelato che in quella tomba non era sepolto un sant’uomo, ma un brigante giustiziato per i propri delitti. Intervenne anche in seguito, nel caso di sedicenti profeti, che ammaliavano anche i colleghi vescovi con le loro pseudo-rivelazioni.
Ma il biografo, secondo il gusto del suo tempo, ci regala soprattutto una raccolta di fatti miracolosi. Martino si impegnò contro l’idolatria, che ancora era diffusa nelle campagne della Gallia. Egli è un vescovo missionario, che esce dalla città, fa esorcismi, guarisce gli ammalati. La paglia del suo giaciglio è una reliquia contesa dal popolo, che vede in lui un liberatore dalle malie dei culti pagani. Quando nelle campagne rade al suolo i santuari pagani o gli alberi sacri, lo fa perché conosce quale giogo quelle credenze imponessero al popolo. Noi oggi grideremmo all’intolleranza in quelle pagine in cui Martino distrugge i santuari pagani. In quei secoli i cristiani intravedevano presenze demoniache nelle divinità pagane: le statue della mitologia, gli amuleti, i feticci e altri vestigi temuti o adorati nel paganesimo, erano ritenuti sedi della presenza demoniaca; gli dèi dell’Olimpo venivano considerati davvero esistenti, come divinità invertite, che si presentavano come Dio, ma ne erano una falsa imitazione. Martino combatteva queste credenze per liberare la sua gente da una schiavitù.
Il diavolo scatenato
Colpiscono i numerosi episodi in cui il Santo combatte contro un demonio, che si insinuava fin nelle celle del suo monastero. È il caso di un giovane monaco, che pretendeva di essere considerato un profeta e il messia; annunciava che avrebbe ricevuto dal cielo una veste sfolgorante e così avvenne; ma la veste svaporò, quando il presuntuoso monaco venne trascinato a forza davanti a Martino, capace ancora una volta di discernere gli spiriti.
Il demonio «con grandi astuzie tentò anche Martino»: gli appariva nelle vesti delle divinità dell’Olimpo, lo insultava, gli rinfacciava di «aver accolto nel monastero, in seguito alla loro conversione, alcuni fratelli che un tempo avevano sciupato il battesimo in differenti traviamenti». Era il grande accusatore che accusava i fratelli (Ap 12,10), smascherava «le colpe di ciascuno» e tentava di inchiodare i cristiani nella disperazione per i peccati commessi. Martino gli rispose, proclamando la misericordia di Dio, e dicendo addirittura che, «se anche tu, sciagurato ti pentissi delle tue azioni, sarei io a prometterti misericordia».
Alla fine gli apparve nelle vesti del Cristo trionfatore: «Riconosci, Martino, colui che vedi! Io sono il Cristo. In procinto di discendere sulla terra, prima ho voluto manifestarmi a te». Martino lo smascherò abilmente: «Il Signore Gesù non predisse che sarebbe venuto vestito di porpora e splendente della luminosità d’un diadema; io non crederò che Cristo sia venuto, se egli non presenterà i segni della croce», i segni della passione.
Ma non è solo Martino ad essere vittima dell’avversario. Sullo sfondo dei Dialoghi traspare la figura del successore Brizio, che era stato allevato da Martino come un figlio, ma era diventato un figlio degenere. Sul finire dell’opera Sulpicio racconta un episodio di possessione: «Un giorno Martino vide due demoni starsene sull’alta rupe che sovrasta il monastero e di lì, sguaiatamente allegri, lanciare un urlo di esortazione di questo tipo: “Forza Brizio! forza Brizio!”… Brizio entra furibondo: in preda alla pazzia, vomita addosso a Martino mille insulti… aggredì Martino al punto che per poco non lo picchiava; il Santo invece, col volto sereno e l’animo tranquillo, frenava la pazzia di quell’infelice con parole pacate… Diceva che Martino – cosa che non poteva negare – all’inizio si era imbrattato in azioni militari e ora era invecchiato tra vane superstizioni e i ridicoli fantasmi delle sue visioni, perso nei deliri». Martino liberò Brizio dal demonio e questi chiese umilmente perdono. Gli episodi dovevano essere frequenti, visto che Martino commenò: «Se Cristo sopportò Giuda, perché io non dovrei sopportare Brizio?».
L’altro povero infreddolito
Un giorno d’inverno, un povero seminudo chiese un vestito al vescovo Martino. Egli lo affidò alle cure dell’arcidiacono, che però trascurò l’ordine. Al che il poveruomo si infilò in sacristia, lagnandosi ancora con Martino, che si tolse la tunica, la diede al povero e lo accomiatò. Venne l’arcidiacono a ricordargli l’inizio della celebrazione, ma Martino disse che non poteva entrare in chiesa, se il povero non avesse prima ricevuto una veste. Il prete si giustificò: il povero non era più reperibile. Martino disse: «Sia portata a me la veste che era pronta; non vi mancherà un povero da vestire!». L’arcidiacono, irritato da tanta insistenza, comperò nelle botteghe vicine una veste grossolana e la scagliò davanti al vescovo: «Ecco la veste, ma il povero non c’è!». Il Santo indossò la veste grezza e con questa salì a celebrare, sotto gli occhi impietriti del clero diocesano.
Di fronte ai potenti
Anche a quei tempi i potenti brillavano per crudeltà. In particolare, Martino si oppose ad Aviziano, un funzionario imperiale plenipotenziario, personalità psichicamente tormentata: affezionato a Martino, era però volubile nel comportamento, ordinava esecuzioni e poi, se glielo chiedeva Martino, liberava i condannati. Questi ebbe con lui un serrato confronto, per convincerlo a un gesto di clemenza nei confronti di un gruppo di condannati. E quando l’imperatore Valentiniano (364-375) gli negò udienza, Martino con la preghiera ottenne che gli si aprissero le porte del palazzo.
Un momento drammatico
La statura di Martino si avverte in un episodio poco noto, ma di grande modernità. Negli ultimi anni, si trovò nell’occhio del ciclone per essersi opposto alla condanna capitale per eresia decretata su Priscilliano e seguaci. Nel 384 era stato accusato di magia nera e di immoralità. L’usurpatore Massimo lo fece imprigionare con i suoi seguaci. Martino tentò ogni via per evitare la condanna a morte, sottolineando che «era inaudito e nefasto che un affare ecclesiastico fosse giudicato da un giudice secolare». Tentò una missione a corte, ma appena il vescovo lasciò la corte, il principe affidò la causa a un giudice crudele e il processo si chiuse con l’esecuzione di Priscilliano e di altri seguaci. Fu il primo caso nella storia di condanna a morte per eresia. Massimo poi incaricò altri inquisitori di mettere fine all’eresia. Martino lo seppe e si incamminò verso Treviri, per tentare una nuova mediazione. Il suo intervento fu inutile e – come se non bastasse la sconfitta – gli vennero pure addebitati sospetti di fiancheggiamento all’eresia. Dopo questi fatti l’episcopato gallico fu diviso fino al 398. Martino, da parte sua, «visse ancora sedici anni dopo quel fatto ma si astenne da tutte le riunioni dei vescovi».
La morte di Martino
Martino morì l’8 novembre 397, dopo 26 anni di episcopato, nel villaggio di Candes, dove si era trascinato per appianare la discordia che divideva i chierici locali. L’ultimo dei suoi miracoli fu riportare la pace nella Chiesa, vincendo il male seminato dal diavolo “divisore” (il suo nome significa questo).
Aveva ormai 81 anni; a Candes venne bloccato dalla febbre. I seguaci lo accompagnarono nell’ultima ora, supplicandolo: «Perché, padre, ci abbandoni e a chi ci lasci nella desolazione? Lupi rapaci invaderanno il tuo gregge; chi ci difenderà dai loro morsi, dopo che il pastore sarà stato percosso?». Martino si affidò alla volontà di Dio: «Signore, se sono ancora necessario per il tuo popolo, non rifiuto la fatica: sia fatta la tua volontà». All’affidamento finale, vide il diavolo accanto a sé e gli disse: «Perché sei qui, bestia sanguinaria? Contro di me, funesto, non troverai niente». Le ultime parole del grande esorcista allontanarono il nemico, che tentava di distrarlo da Dio proprio nell’ora della morte. E «Martino viene accolto lieto nel seno di Abramo; Martino, povero e umile, entra ricco nel cielo».
L’11 novembre la salma venne solennemente portata in città per la sepoltura: un grandioso funerale, cui partecipò una moltitudine di monaci e di popolo. Tutti piangevano per la perdita e gioivano insieme, perché Martino aveva raggiunto il Signore. La memoria di quel grandioso funerale fissò la data della sua festa.
tratto da Davide Fiocco
L’altra metà del mantello,
TiPi edizioni, Belluno 2014
LA STORIA DI MARTINO NEL POLITTICO DELLA CRIPTA DELLA CATTEDRALE
I due martiri e il loro culto nella diocesi di Belluno-Feltre
I santi Vittore e Corona sono due martiri, uccisi in Siria nel 171. La loro vicenda è raccontata in documenti di un paio di secoli successivi al martirio scritti in latino, in greco ed in siriaco. Secondo tali documenti, Vittore era un soldato romano di stanza in Siria. Accusato di essere cristiano, viene condotto davanti al giudice Sebastiano che lo invita a rinnegare la fede per aver salva la vita. Rifiuta e viene sottoposto a diversi supplizi (gli spezzano le dita delle mani, gli cavano gli occhi, lo tormentano col fuoco e, quindi, lo uccidono tagliandogli la testa). Corona era la moglie sedicenne di un commilitone di Vittore. Vedendo il coraggio del martire, si dichiara lei pure cristiana e viene immediatamente condannata ad essere squartata, legata per le gambe a due palme piegate a forza e poi lasciate andare. Le reliquie dei martiri sono state portate prima a Cipro, quindi a Venezia e, verso il Mille, a Feltre.
Tra il 1096 ed il 1101 viene costruita dal grande feudatario Giovanni da Vidor, in loro onore, il santuario sul monte Miesna, dove i loro resti sono conservati. Il santuario da allora è stata meta di pellegrinaggi dei devoti, soprattutto nelle due feste del 14 maggio (festa liturgica) e del 18 settembre (“San Vetoret”, che ricorda l’arrivo sul Miesna delle Reliquie). Le devozione ai due martiri è diffusa anche al di fuori del territorio dell’antica diocesi di Feltre, che li aveva eletti a Patroni, soprattutto nel Trevigiano e nel Trentino, ma anche nel Bellunese (Gosaldo, Lentiai) ed in Oriente (cfr. M. Giazzon, Il culto dei santi martiri Vittore e Corona nell’antica diocesi di Feltre, Feltre 1991, 191).
Sul Santuario – insignito nel 2002 del titolo di “Basilica minore” – sono innumerevoli gli studi prodotti perché è uno scrigno d’arte, oltre che di fede. Costruzione a croce greca, vide modificato il tetto da parte dei fiesolani, che, tra il Quattrocento ed il Cinquecento, costruirono accanto il loro convento, utilizzando il materiale edile dell’antico castello fatto demolire dalla Repubblica Veneta a metà del Quattrocento. È ricco di affreschi di Scuola Emiliana, di Scuola Giottesca e della cerchia di Tommaso da Modena, oltre che di altri autori meno noti.
don Sergio Dalla Rosa
santi patroni minori
[nella foto: Francesco Terilli, San Prosdocimo, sec. XVII, Feltre cattedrale, statua lignea]
La tradizione agiografica riferisce che san Prosdocimo fu l’evangelizzatore del Veneto centrale, da Este sino a Feltre. Sulla scorta di tali dati si sviluppò anche la costante iconografia del santo, che lo rappresenta nell’atto di amministrare il battesimo. Si pensi all’immagine più pregevole: la statua bronzea realizzata da Donatello intorno al 1450 e venerata nella basilica di Sant’Antonio a Padova.
La tradizione agiografica
La tradizione narra che Prosdocimo si recò ad Antiochia con due giovani coetanei, Marco ed Apollinare, per essere istruito dall’apostolo Pietro nella fede cristiana. I tre discepoli seguirono l’apostolo quando questi si recò a Roma e da costui vennero inviati come vescovi ad evangelizzare il nord della penisola: Marco ad Aquileia, Apollinare a Ravenna e Prosdocimo a Padova. Giunto a Padova, Prosdocimo si dedicò alla predicazione del Vangelo, accompagnata da guarigioni miracolose. Determinante fu la guarigione del re della città, Vitaliano, che impose la conversione al cristianesimo di tutta la popolazione. Da Padova Prosdocimo iniziò un viaggio di evangelizzazione che lo portò, in ordine, nelle seguenti città: Este, Vicenza, Asolo, Feltre e Treviso. In queste città organizzò la comunità cristiana da lui fondata, ordinando sacerdoti e diaconi e fece costruire un edificio di culto. A Feltre – narra il testo agiografico – egli dedicò a san Pietro, suo maestro, la chiesa da lui fondata.
Fatto ritorno a Padova, dovette affrontare un momento per lui doloroso: la figlia del re Vitaliano, Giustina, venne messa a morte dall’imperatore Massimiano, che si vide rifiutate le sue profferte di matrimonio. Prosdocimo ebbe cura di dare degna sepoltura alle spoglie mortali della giovane martire.
La critica storica
A partire dalla fine del Settecento questa narrazione agiografica venne messa in discussione per i suoi evidenti anacronismi. In pieno Novecento vi erano due differenti posizioni tra gli studiosi. Alcuni facevano notare che, come in ogni tradizione agiografica, vi è un nucleo storico che poi è stato abbellito e arricchito di particolari narrativi. Così in questa fonte di san Prosdocimo vi è un nucleo storico che si può far emergere, mondando la narrazione dagli anacronismi e dalle imprecisioni. Insomma come l’archeologo, che pesca un’anfora o una statua antica dai fondali marini, la deve ripulire dalle alghe, disincrostare dal calcare e alla fine ha riportato il cimelio antico al suo originale splendore, così ci si deve dedicare ad un paziente lavoro di ripulitura di questo testo agiografico e così si avrà la storia originale di san Prosdocimo. La seconda linea di studiosi (tra i quali il grande agiografo gesuita Hyppolite Delehaye) sostenevano che il racconto agiografico è completamente inventato, protagonista compreso e quindi un san Prosdocimo vescovo di Padova non è mai esistito.
I dati storici
Fu merito di mons. Ireneo Daniele, con una ricerca condotta nell’arco di vent’anni, mettere dei punti fermi sulla figura di san Prosdocimo. Innanzitutto il dotto sacerdote affermò con forza che il racconto agiografico è del tutto inutilizzabile per dire qualcosa di fondato su san Prosdocimo. Il racconto nacque infatti nell’XI secolo e riflette quindi non la situazione storica di cui si vuole testimone (I secolo della Chiesa); riflette invece le pretese della Chiesa di Padova all’inizio del secondo millennio di essere matrice delle Chiese del Veneto Centrale. Se in tal modo è data risposta alla prima linea di studiosi, viene però messa fuori gioco dal Daniele anche la seconda linea di studiosi, vale a dire i critici radicali che negano l’esistenza di san Prosdocimo. Infatti vi è una serie di attestazioni (monumentali, liturgiche, epigrafiche e onomastiche) che attestano l’esistenza e il culto di san Prosdocimo ben anteriori al racconto agiografico, per cui non si può dire che la figura del racconto sia stata inventata dagli anonimi compositori del racconto agiografico.
Questione delicata è poi dire quando san Prosdocimo visse. Con equilibrio mons. Pierantonio Gios ha scritto: «In quanto al periodo in cui visse, una serie di elementi inducono a porre la sua attività di vescovo non al tempo delle persecuzioni, ma in epoca post costantiniana, nel quarto secolo; inoltre non visse nello stesso periodo della vergine Giustina, anche se la tradizione tardo antica-alto medievale ritenne poi di intrecciare le vicende dei due santi, ponendole alla radice della chiesa padovana. È l’unico degli antichi vescovi padovani di cui si siano conservati e la tomba e il culto. Prosdocimo non fu martire, ma sopravvisse all’era dei martiri» (P. GIOS, s. v. Padova, in Le diocesi d’Italia, dir. da L. Mezzadri, M. Tagliaferri e E. Guerriero, III, Cinisello Balsamo 2008, 875-876).
La venerazione di san Prosdocimo a Feltre
In tutte le città, nelle quali secondo la tradizione predicò san Prosdocimo, le testimonianze di venerazione verso di lui sono posteriori all’XI secolo, in altri termini sono posteriori alla composizione del racconto agiografico. Quindi: il racconto medievale ha fatto sorgere la devozione al Santo in queste città; il racconto agiografico ebbe funzione di causa del culto a san Prosdocimo nei pretesi luoghi della sua predicazione, il racconto non ha funzione di testimone di una situazione storica precedente. In altri termini: nessun legame effettivo ebbe san Prosdocimo, vescovo di Padova del IV secolo, con Vicenza, Asolo, Treviso e neppure con Feltre.
La più antica attestazione della venerazione nei confronti a san Prosdocimo risale al 1399: è la scritta che adorna il bordo superiore della bella vasca battesimale monolitica della cattedrale feltrina (Iscrizioni, altari e stemmi del duomo di Feltre, a cura di P. Rugo, Feltre 1996, 159-160).
Nella cattedrale di epoca medievale vi era poi un altare dedicato a san Prosdocimo; lo sappiamo dalla relazione dettagliata fatta nel 1512 da Vittore Cesana, decano del Capitolo, al vescovo Antonio Pizzamano circa gli altari della cattedrale feltrina (collocazione, santi titolari e sacerdoti beneficiati) prima dell’incendio del 1510. Quando la cattedrale venne ricostruita nel corso del Cinquecento, si tornò a erigere un nuovo altare a san Prosdocimo, esso era collocato sotto la prima campata (partendo dal presbiterio) della navata settentrionale. Per concludere ricordiamo due immagini artistiche del santo presenti nella città di Feltre: la statua lignea dello scultore Francesco Terilli (1584-1635) sull’altare a lui dedicato in cattedrale; la statua si ispira alla postura della statua del Donatello. La seconda opera è il dipinto che apriva la serie delle effigi dei vescovi feltrini fatta eseguire dal vescovo Agostino Gradenigo nel 1616 per il salone delle udienze del palazzo vescovile: san Prosdocimo è raffigurato al lato destro della città di Feltre in miniatura, nell’atto di versarvi l’acqua del battesimo.
don Claudio Centa
È chiamato l'”Apostolo delle Dolomiti” e in queste montagne parecchie località portano il suo nome e varie chiese gli sono dedicate. Visse nella prima metà del sec. V. Era vescovo di Sabiona (ora Chiusa a dieci chilometri da Bressanone, dove più tardi quella sede vescovile fu trasferita). Durante una carestia, permise ai suoi fedeli l’uso dei latticini in Quaresima. Denunciato per questo al papa Celestino I (422-432), fu invitato a Roma a scusarsi; i miracoli che lo accompagnarono durante il viaggio e la permanenza nella città, valsero più d’ogni scusa.
Al suo ritorno, un gruppo di nemici (tramandati come “ariani”) lo costrinse a lasciare di nuovo la sede. Si ritirò allora a vita eremitica nella Val di Fiemme, ove si trovano il piccolo villaggio e la chiesuola a lui intitolati. Non sentendosi sicuro neanche là, oltrepassò le montagne e scese verso la Conca agordina, in quella che ancor oggi si chiama Valle di San Lucano. Si rifugiò in una caverna, donde non si allontanava che per evangelizzare e curare spiritualmente le genti della zona.
In una di queste missioni conobbe a Listolade la beata Avazia o Vaza, la quale, ottenuto il permesso dal marito, si ritirò a vita eremitica sotto la direzione spirituale del santo. Sulla tomba di Lucano, presso Taibon, sorse una chiesa, che, distrutta da una valanga, fu riedificata nel 1635. G. Mezzacasa pensa che Vaza, vissuta almeno cinque secoli dopo san Lucano, fu creduta dalla fantasia del popolo sua contemporanea e figlia spirituale, perché condusse vita ascetica presso questa chiesetta, dove anche lei fu sepolta.
Fin qui le leggende, fiorite attorno ai luoghi che dal santo prendono il nome, mutuando per lo più temi di altre leggende. Una straordinaria fioritura del culto di san Lucano si verificò nei secc. XIII e XIV e ne fanno testimonianza le tre chiese sorte in quel tempo in onore di lui, oltre a quella dov’era sepolto presso Taibon, al Passo di S. Lucano, con accanto un ospizio (1325-1332), a Villapiccola presso Auronzo (non dopo il 1352) e a Belluno (1396). Nella cattedrale di quest’ultima città il corpo del santo fu trasportato da Taibon, ove si conserva solo una reliquia, probabilmente nel 1307 ed ivi fu sepolto entro un’arca contigua all’altare maggiore.
Tratto da “Enciclopedia dei Santi”
La Chiesa bellunese ha venerato per secoli quale suo patrono principale san Ioatà [anche Gioatà, da Joathas], un martire militare africano di età dioclezianea, possedendone il corpo. L’arrivo a Belluno delle sue reliquie è rimasto a lungo avvolto nelle nebbie di una tradizione agiografica abilmente costruita e alimentata in epoca altomedievale, e solo di recente ne è stata tentata una prima rilettura per meglio inquadrare le coordinate innanzitutto temporali ma anche culturali, politiche e ovviamente religiose entro cui va collocata una vicenda comunque fondamentale per comprendere il formarsi dell’identità locale.
Dopo la traslazione e deposizione nel duomo cittadino delle reliquie e la fissazione della Passio di san loatà, entrambe avvenute verosimilmente verso la fine dell’età carolingia, all’inizio del X secolo, il possesso del corpo santo del martire Ioatà divenne infatti uno degli elementi fondanti dell’identità della Chiesa bellunese nel momento della sua massima potenza politico-militare, sotto l’ottoniano vescovo Giovanni (963-999), e tanto più essa ne conservò gelosamente la memoria mano a mano che il vescovado bellunese (dopo il 1197 unito con Feltre) si ritrovò ad essere progressivamente ridimensionato dai sempre più ingombranti vicini trevigiani, trentini e aquileiesi. Lo dimostrano le ricognizioni delle reliquie (le più antiche pervenute) effettuate nel 1237, 1307 e 1400, che in tutti e tre i casi riservano al corpo di san Ioatà una collocazione del tutto particolare: per ultima, separata da ogni altra, nel 1237, per prima, con termini grande rilievo, nelle altre due, a conferma di una indiscussa preminenza.
Tale ruolo venne spettacolarmente confermato nel 1318 quando la città, nel rinnovare le sue antiche fontane, decise di collocare (o sostituire? Nessuna ricerca ha ancora dimostrato se e cosa vi fosse prima) una statua di san Ioatà sul fuso della fontana di piazza duomo, al centro tra cattedrale, castello vescovile (l’attuale Auditorium) e palazzo del Comune, cioè nel cuore simbolico della vita istituzionale della città, mentre san Lucano si dovette accontentare dell’adiacente piazza del mercato, continuando quindi un secolare confronto a distanza avviato fin dall’età carolingia, quando entrambi fecero il loro ingresso solenne in città, Ioatà come culto vescovile e Lucano come culto canonicale.
Perdita dell’autonomia e nuova ricerca dell’identità
L’inizio del XV secolo, con l’entrata di Belluno nell’orbita veneziana ed il contemporaneo sorgere dell’umanesimo, rappresenta allo stesso tempo l’apogeo e il canto del cigno di un culto cittadino che proprio in quegli anni si concretizzò, ad esempio, nella realizzazione di un grande e prezioso busto-reliquiario, nella stesura di un apposito officio composto da Michele de’ Bossi da Milano, sacerdote e cittadino bellunese, e nella ricopiatura dei due antichi inni liturgici di epoca carolingia all’interno del salterio-innario oggi conservato nella Biblioteca Lolliniana [del Seminario diocesano, ndr]. Ma proprio quegli anni marcano l’inizio di una crisi che si dimostrerà irreversibile per san Ioatà e il suo culto, asfitticamente compresso entro la sola cerchia muraria di una Belluno ormai relegata ad un ruolo assolutamente minore nel dominio di terra della Serenissima e affidato ad un’unica Passio vistosamente leggendaria ed incapace di reggere alla nascente critica filologica.
Un processo che fu certamente accelerato, sul doppio versante materiale e culturale, dall’incendio della cattedrale del 1471 e dal successivo secolare cantiere che impegno fino alla fine del Cinquecento la Chiesa bellunese in una ricostruzione che assorbì gran parte delle risorse economiche ed intellettuali: in tale senso fu certamente decisivo, per comprendere la rapida eclissi del culto di san Ioatà, il contemporaneo arrivo della reliquia costantinopolitana della Sacra Spina, con il miracolo annuale che […] sostituì senza discussioni il martire africano nella gerarchia ideale dei tesori liturgici della cattedrale bellunese.
Già le redazioni statutarie del primo Quattrocento avevano attuato (o ratificato?) una prima vistosa modifica dell’ordine gerarchico dei patroni cittadini che, se nella ricognizione delle reliquie del 1400 confermavano ancora san Ioatà saldamente al primo posto, pochi decenni più tardi presentano invece, nell’ordine, Martino, Biagio, Ioatà, Lucano, Lamberto e Giorgio, mentre la redazione finale e canonica dello statuto edita nel 1525 […] aveva alterato ulteriormente la sequenza, relegando ormai Ioatà al quarto posto, dietro a Martino, Lucano e Lamberto.
Tratto da: Marco Perale,
1512: Joathas rotatus di Pierio Valeriano.
Un poema rinascimentale per l’antico patrono di Belluno. Edizione critica,
Istituto Bellunese di Ricerche Sociali e Culturali (Serie “Litterae Montanae” 3),
Belluno-Rende (CS) 2014, 14-18.
Ermagora è il vescovo col quale comincia il catalogo episcopale di Aquileia e non c’è ragione di dubitare di questa testimonianza. Sarebbe vissuto verso la metà del III secolo e dopo di lui quel catalogo continua senza interruzione, nonostante qualche incertezza, fino alla soppressione della diocesi patriarcale nel 1751. Oltre a questo, nulla sappiamo di sicuro a proposito del protovescovo.
A tale mancanza intese supplire una diffusa leggenda formatasi durante l’VIII secolo. Essa narra che l’evangelista san Marco, inviato da san Pietro a evangelizzare l’Italia superiore, giunto ad Aquileia, vi incontrò un cittadino di nome Ermagora e, convertitolo al Cristianesimo, lo consacrò vescovo della città, avviando così l’evangelizzazione di tutta l’area mitteleuropea. Egli vi avrebbe conclusa la sua missione con il martirio durante la persecuzione suscitata da Nerone e compagno gli sarebbe stato il suo diacono Fortunato. I due santi sono patroni dell’arcidiocesi di Gorizia, dell’arcidiocesi e della città di Udine nonché, da pochi anni, di tutta la Regione Friuli Venezia Giulia.
Ai due santi aquileiesi è legato soprattutto il Cadore, per i tanti secoli di appartenenza alla diocesi di Aquileia e poi a quella di Udine, erede del patriarcato aquileiese.
Tratto da www.santiebeati.it