A cura di don Sandro De Gasperi (2ª domenica di Pasqua - anno C)

Io sono il Primo e l’Ultimo e il Vivente

La «Chiesa in uscita», eredità di papa Francesco, è il frutto maturo dell’incontro vivo con il Risorto

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«Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi»: un’identità solenne, affermata appoggiando la mano destra sulla spalla dell’apostolo intimorito dalla grandiosa visione che il libro dell’Apocalisse ci consegna nel brano che ascoltiamo questa domenica.

È l’identikit del Cristo Risorto, che – lo affermiamo continuamente, lo celebriamo in questo tempo pasquale – ha vinto per noi la morte: la vita ha vinto, la vita vince sempre. È questa certezza, è questa speranza il motore dell’azione degli Apostoli: è questo il carburante che porta la Chiesa ad ingrandirsi, ad accogliere nuovi membri, a diventare il punto di riferimento per chi cerca consolazione, sollievo, aiuto, coraggio.

È la Chiesa il luogo in cui risuona l’annuncio degli Apostoli, in cui si accoglie la testimonianza della Risurrezione, in cui esso diviene vita, promessa, speranza. È la Chiesa – cioè l’insieme di coloro che hanno udito e hanno creduto, di coloro che, affascinati dalla vita del Risorto, si sono uniti al Signore – che, riunita, può accogliere la visita del Primo e dell’Ultimo, del Vivente, che si scontra con le nostre paure, con le nostre porte chiuse, con le nostre inquietudini, con i nostri dubbi.

La Pasqua di Gesù non calpesta quello che siamo, i nostri tempi, i nostri intricati ragionamenti, la nostra mancanza di fiducia. Alla professione di fede si arriva piano piano, camminando, sorretti dall’amicizia e dalla testimonianza di chi ci sta a fianco, di coloro che – magari stizziti dalle infedeltà, dai tradimenti, dalle debolezze – abbiamo abbandonato, convinti di essere stati ingannati, convinti che ci abbiano mentiti, convinti che Dio, con quella povera gente, ha poco o nulla a che fare, che si mostrerà altrove, che non lo troveremo così vicino a noi.

Viviamo in questi giorni, l’esperienza della fragilità, del distacco, del lutto: papa Francesco ci lascia un po’ più soli, in un mondo che, nonostante le entusiastiche parole di commiato, poche volte ha avuto il coraggio di mettersi davvero in ascolto della sua profezia di umanità, di fede, di speranza. Eppure, proprio in questi giorni, si apre la possibilità di scoprire ancora, di nuovo, a partire dalle nostre comunità fino alla Chiesa universale, il volto sorprendente, talvolta nascosto, ma sempre amorevole, del Primo, dell’Ultimo, del Vivente.

Riscopriamo che le chiavi della storia sono nella Sua mano e che siamo depositari di un annuncio che si trasforma in parole di guarigione, in parole di unità, in parole di condivisione sofferta con le angoscie, le fatiche, le fragilità di un mondo assetato di speranza, assetato di Risurrezione, bisognoso di una Chiesa che sia sempre di più il luogo in cui sperimentare la visita sorprendente del Risorto e il Suo augurio di pace.

Nonostante i nostri sentieri tortuosi, alberga in noi la nostalgia, il desiderio di confessare con la stessa semplicità e la stessa intensità di Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Abita in noi l’attesa, discreta e silenziosa, ma potente, del Primo, dell’Ultimo, del Vivente, che spalanca le nostre porte chiuse, che ci offre le sue ferite come segni di un amore che nulla, nulla, nulla – nemmeno la morte – ha potuto sconfiggere.

La Chiesa in uscita, che siamo chiamati a diventare sempre più e che papa Francesco ci lascia come suo sogno e sua eredità, altro non è che il frutto maturo dell’incontro vivo, vero, profondo, con il Primo, l’Ultimo, il Vivente. Che anche oggi bussa. Che anche oggi sta in mezzo a noi. Che anche oggi si dona a noi.