Migranti e rifugiati in festa per la giornata mondiale e il giubileo

Accoglienza, la nuova missione

Una festosa celebrazione in comunione con l’evento giubilare di Roma

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Lo si è capito subito che non sarebbe stata una celebrazione come le altre: le forti voci del coro dei Cherubini, i tratti somatici delle varie comunità raccolte tra i banchi, la presenza sugli stalli dei canonici di un prete vestito con i paramenti di rito orientale.

E poi le quattro intenzioni della preghiera universale in filippino, in un francese che certamente non era quello della Sorbonne, in spagnolo, in ucraino. E soprattutto i volti sorridenti con cui due bambini di colore hanno partecipato alla processione offertoriale, strappando un sorriso anche al Vescovo nelle poche parole di presentazione.

La celebrazione vespertina di domenica 5 ottobre – nel contesto della giornata mondiale del migrante e del rifugiato – è stata il volto di una società italiana che sta cambiando e, nello stesso tempo, di una comunità ecclesiale che è meno refrattaria della prima a fare posto nei banchi della cattedrale a fratelli e sorelle che si riconoscono tali attorno all’unico altare e per l’unico battesimo.

Nell’omelia, il Vescovo ha ricordato il tema della giornata mondiale, che nel migrante scorge anche la speranza di quanti si muovono cercando una vita migliore. In questo essi diventano missionari verso la vecchia Europa, rannicchiata e affannata nelle sue preoccupazioni economiche, che poco spazio lasciano alla speranza. In questo – ha sottolineato il Vescovo – si attua una nuova missionarietà: se un tempo le nostre comunità ecclesiali vivevano la missione inviando personale e offrendo aiuto economico, oggi sperimentano la missione accogliendo i migranti e i rifugiati e riconoscendoli fratelli e sorelle.

Infine il Vescovo ha richiamato le parole che papa Leone aveva pronunciato al mattino in Piazza San Pietro, durante il Giubileo dei mondo missionario, unito a quello dei migranti: «quelle barche che sperano di avvistare un porto sicuro in cui fermarsi e quegli occhi carichi di angoscia e speranza che cercano una terra ferma in cui approdare, non possono e non devono trovare la freddezza dell’indifferenza o lo stigma della discriminazione!». Un messaggio eloquente, che non ha bisogno di chiose.

È ancora la nuova modelità di missione a cui sono chiamate le nostre Chiese: «Non si tratta tanto di “partire”, quanto invece di “restare” per annunciare il Cristo attraverso l’accoglienza, la compassione e la solidarietà: restare senza rifugiarci nella comodità del nostro individualismo, restare per guardare in faccia coloro che arrivano da terre lontane e martoriate, restare per aprire loro le braccia e il cuore, accoglierli come fratelli, essere per loro una presenza di consolazione e speranza».