Novembre 1962. Erano le prime settimane del Concilio, timidi passi di un evento ecclesiale che ancora non può dirsi compiuto. Il recente Sinodo universale dei vescovi, concluso il 27 ottobre scorso, ha riconosciuto: «Il cammino sinodale sta mettendo in atto ciò che il Concilio ha insegnato… In questo senso costituisce un atto di ulteriore recezione del Concilio, ne prolunga l’ispirazione e ne rilancia per il mondo di oggi la forza profetica».
Allora tra i padri conciliari c’era anche un bellunese, che giorno dopo giorno appuntava le sue impressioni su un quaderno, che sul frontespizio titolò “Piccolo diario”. Lo conosciamo, perché oggi lo veneriamo come beato Giovanni Paolo I. Nei primi giorni di quel novembre egli scriveva: «Abbiamo assistito ai riti orientali, senza capire… succede così anche ai fedeli quando celebriamo noi… Moltiplichiamo le altre funzioni, le paraliturgie… Perché invece non rendere più semplice, facile, breve la vera liturgia, tagliando ciò che non viene capito?». Infatti in quegli anni iniziò un processo di aggiornamento nella vita delle comunità cristiane. Certamente le più evidenti furono le novità liturgiche, entrate in vigore nella primavera del 1965: da allora la liturgia è celebrata in italiano e il popolo vi partecipa, senza delegare il rito al dialogo tra il celebrante e un malcapitato chierichetto, costretto a memorizzare le risposte in un latinorum, tanto incomprensibile quanto improbabile.
Nel corso del recente Cammino sinodale, si è spesso ascoltata la richiesta dei fedeli, soprattutto dei più giovani, perché nella Chiesa si adotti un linguaggio comprensibile, evitando il cosiddetto “ecclesialese”, sia nei momenti della preghiera comunitaria, sia nella comunicazione sui media.
Nei Lineamenti, che hanno guidato l’Assemblea sinodale del 15-17 novembre, leggevamo l’istanza per una cura delle celebrazioni e dell’«efficacia comunicativa delle liturgie, a partire dalle omelie», oltre all’auspicio che si avvicini «la liturgia alla vita delle persone, in particolare a quelle con maggiori difficoltà dovute a disabilità fisiche o psicologiche, cultura differente, età, situazioni di vita»; infine l’espresso desiderio di «aiutare i fedeli a porre e a comprendere il linguaggio liturgico». È un campo di lavoro delicato ma, a quanto pare, improcrastinabile.
Un altro ambito da cui le comunità cristiane sono state interpellate è quello dei media. Il sinodo universale ha riconosciuto che il mondo dei social media «ci trova impreparati e richiede la scelta di dedicare risorse perché l’ambiente digitale sia un luogo profetico di missione e di annuncio».
Chi scrive ha sperimentato attorno al tavolo di lavoro cui ha partecipato, uno scambio di pareri utile e franco, probabilmente favorito dal fatto che l’unico vescovo iscritto si è fermato poche ore; inoltre i preti erano soltanto due e tutti gli altri delegati erano tutti attivi sui social. È su questa linea l’indicazione di «implementare l’utilizzo del digitale per gli organi di stampa diocesani, favorendo un aggiornamento costante dei portali web, la produzione e valorizzazione dei contenuti veicolati via social, radio e tv, fino alle nuove esperienze fruitive come i podcast». Così leggiamo nello Strumento di lavoro, recapitato alle diocesi italiane il 20 dicembre scorso, per essere traccia di riflessione nei consigli pastorali, in vista della seconda sessione che ci riporterà a Roma dal 31 marzo al 4 aprile 2025.
Non è bene che l’oste elogi il proprio vino, ma è confortante osservare che il lavoro avviato in diocesi – attraverso il sito diocesano, il collegamento ai social e a questo settimanale – ci trova quanto meno sulla strada indicata. Il risultato è sempre incompleto, perché nel mondo dei media tutti corrono e spesso la Chiesa insegue. L’importante è non restare orgogliosamente chiusi in una “Fortezza Bastiani” di buzzatiana memoria (ulteriore suggestione bellunese): quella del «si è sempre fatto così».
Davide Fiocco