A cura di don Sandro De Gasperi (5a domenica di Quaresima - anno C)

Chi è senza peccato?

«Rimasero soltanto loro due: la misera e la misericordia»

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«Chi è senza peccato…»: intercetta così bene la nostra esperienza, questa pagina evangelica, che è diventata persino un modo di dire, un proverbio popolare, a cui si ricorre più o meno scherzosamente. Se ci soffermiamo a considerare la nostra vita – come Gesù invita gli scribi e i farisei protagonisti della scena a fare –, nessuno di noi può dire di non aver mai sbagliato. Di non avere mai fallito il bersaglio, potremmo dire parafrasando l’idea che sta sotto al concetto di peccato nella tradizione biblica.

Messi di fronte alla nostra coscienza, alla nostra interiorità, ci accorgiamo da soli che il peccato non è solo una realtà che riguarda gli altri, che macchia la vita degli altri, che chiede la lapidazione degli altri – questa pratica, per la verità, abbandonata nel Giudaismo contemporaneo a Gesù, pur rimanendo codificato dalla Legge di Mosè. Tocca anche noi, macchia anche noi, denuda anche noi.

Se ci fermassimo qui, questa pagina complessa e bellissima del Vangelo di Giovanni altro non sarebbe se non una amara constatazione della natura corrotta e incline al male dell’uomo, che pervade anche le guide religiose e politiche, che intacca chiunque. A Gesù interessa mettere in luce che c’è un modo cristiano di vivere la realtà del peccato: per gli scribi e i farisei, di ieri, di oggi e purtroppo anche di domani, quello che deve accadere a quella donna è chiarissimo. Colpa (commessa non da sola, se volessimo essere precisi, ma per gli accusatori non è una questione fondamentale), giudizio, condanna.

Per Gesù, il peccato rimane tale, ma non è tutta la vicenda di quella donna. Per Gesù, che scrive su quella terra da cui il Creatore aveva ricavato il primo uomo, il peccato non annulla la bontà dell’opera di Dio, non riesce a distruggere quell’immagine che ciascuno e ciascuna di noi porta impressa nel profondo del cuore. Il male toglie il nome e la dignità, occulta con abilità che quello che noi chiamiamo peccato non è un atto puntuale, ma è una storia, un processo, una strada che ci porta ad allontanarci da Dio e dalla via della vita. Gesù non fa diventare buono ciò che buono non è, ma suggerisce che ci può essere un futuro diverso, un finale diverso, un percorso diverso: le strade aperte nel deserto che riecheggiano nella pagina di Isaia diventano la nuova via che il peccatore, perdonato e convertito, può frequentare, grazie all’opera della misericordia di Dio.

Per gli scribi e i farisei, è chiaro che Dio deve punire, deve giudicare, deve condannare: la Legge – che è un dono di Dio! – diventa lo strumento di tortura attraverso cui è possibile sbeffeggiare la dignità dell’uomo caduto. Per Gesù, è chiaro che Dio ama, che Dio perdona, che Dio rimette in piedi. Che Dio ricrea. Che Dio non condanna, perché sa che la paura porta al servilismo, non all’obbedienza dell’amore. «Rimasero soltanto loro due: la misera e la misericordia», scrive sant’Agostino, commentando questo episodio: vivere il peccato da cristiani significa sapere che, di fronte alla nostra miseria, alle nostre cadute, ai nostri fallimenti e alle nostre infedeltà, non c’è il giudizio degli altri – che spesso è rumoroso alle nostre orecchie – e neppure la condanna della Chiesa, ma anzitutto l’amore misericordioso di Dio. Quell’amore che la Chiesa è chiamata a dispensare instancabilmente e che diventa visibile, palpabile, vicino nelle persone che incontriamo, peccatori perdonati e amati come noi. Quell’amore che non scrive mai la parola “Fine” o la parola “Basta”, ma solo la parola: «Coraggio. Rialzati. Cammina di nuovo e non peccare più».