Negli ultimi mesi ha preso vigore un dibattito in merito alla riforma della legge sulla cittadinanza. La questione assume diversi profili in relazione al motivo per il quale è contemplata o ipotizzata la concessione della cittadinanza:
- lo ius sanguinis (discendenza da antenati italiani) – già contemplato dalla legge del 1992, che oggi pone problemi obiettivi, sia per il numero, sia per la strumentalità delle richieste – a volte riguardano persone che sono radicate altrove da diverse generazioni e non hanno alcuna relazione effettiva con il nostro Paese – sia per la presenza di traffici illegali;
- lo ius soli, l’essere nati in Italia;
- lo ius scholae, cioè l’avere effettuato un percorso di studi sufficientemente lungo nel nostro Paese. La possibilità di un’intesa sulla riforma della legge attualmente in vigore sembra ruotare attorno al terzo profilo, che attribuisce un ruolo determinante all’aspetto culturale dell’appartenenza alla comunità di accoglienza.
Di questi temi, in particolare dello ius scholae si era parlato anche nella due giorni organizzata dalla Conferenza episcopale del Triveneto, tenutasi al Cavallino nel gennaio di quest’anno. La questione rimane sospesa, soprattutto per l’ostilità di alcune forze politiche, ma presenta indubbiamente caratteri di urgenza. La Fondazione Migrantes, organismo pastorale della CEI per le migrazioni, ha appena pubblicato il Rapporto Italiani nel mondo 2024, nel quale dedica a questo tema le ultime pagine.
Partiamo da alcuni dati: sono circa un milione gli italiani senza cittadinanza; nelle scuole il 10% degli alunni ha passaporto straniero; nel 2022 sono stati 53.079 i bambini nati da genitori stranieri. La realtà presenta situazioni contraddittorie: da un lato vengono apprezzati i campioni sportivi che gareggiano con successo per l’Italia, esibiti come segno di multiculturalità della società italiana; dall’altro i paletti posti dalla legge sulla cittadinanza, la Legge 91 del 1992, rendono lunga e frustrante la procedura per ottenerla. Si discute se modificare la legge e in che modo, ma il dibattito assume pieghe di natura ideologica, mentre rimane il disorientamento di migliaia di ragazzi e giovani, che si sentono Italiani, perché in questo Paese sono nati o sono vissuti fin dalla tenera età, percorrendo l’iter scolastico di tutti i loro coetanei. In proposito è interessante il quadro delineato dal rapporto sopracitato della Fondazione Migrantes.
Nuovi italiani senza cittadinanza
Stranieri nati in Italia e italodiscendenti
Da una recente indagine Istat, dal titolo Bambini e ragazzi. Anno 2023. Nuove generazioni sempre più digitali e multiculturali, emerge che, tra i ragazzi non italiani dagli 11 ai 19 anni ben l’85,2% si sentono italiani, pur non essendo riconosciuti tali. Essere italiani significa, in prima battuta, «essere nati in Italia» (54,0% per gli italiani e 45,7% per i ragazzi di altra cittadinanza) e, al secondo posto per entrambi, «rispettare le leggi e le tradizioni italiane».
Dall’altro lato, in un mondo totalmente cambiato dove l’acquisizione della cittadinanza è diventata materia ideologica, con una legge che risale al 1992, c’è la situazione degli italodiscendenti che fanno richiesta per ius sanguinis e diventano vittime di un mercato del malaffare per la vendita di cittadinanze.
C’è un’immagine di Franco Arminio, citata nel Rapporto, che ci offre una prospettiva per il futuro: è la «comunità ruscello», dinamica e impensata, che «apre la porta» all’interculturalità e si contrappone alla «comunità pozzanghera». L’Italia è già strutturalmente un Paese dalle migrazioni plurime che, se adeguatamente indirizzate, incentivate e valorizzate, possono trasformarsi in società vive e inclusive. «Non è possibile – ha dichiarato il presidente della Fondazione Migrantes, monsignor Giancarlo Perego – che la politica non riconosca i cambiamenti che stanno avvenendo nella polis, nella città. Deve interpretarli e governarli con strumenti idonei e non pregiudiziali. Dal 1992 a oggi l’Italia è cambiata».
Una società matura e inclusiva, che sa accogliere e valorizzare le differenze, un Paese consapevole della gravità della crisi demografica e delle sue conseguenze, anche in termini puramente economici, dovrebbe affrontare con maggiore saggezza la sfida della cittadinanza. Dovrebbe favorire l’acquisizione del senso di appartenenza a questo Paese di un numero crescente di giovani, proprio attraverso percorsi scolastici capaci di fondare identità culturali e rispetto dei principi base della convivenza civile. Andrebbe assolutamente prevenuto il rischio “banlieux”, cioè la conflittualità violenta delle periferie, come è accaduto in Francia a causa della emarginazione degli immigrati e della frustrazione delle seconde generazioni.
Francesco D’Alfonso