Il patrono di Belluno
Secondo la tradizione locale, la dedicazione della cattedrale di Belluno a san Martino sarebbe avvenuta nel 547. «Ma chi prese una decisione destinata a durare tanto a lungo, segnando la storia della comunità cristiana bellunese? Una tradizione indiscussa, già ampiamente accolta da Giorgio Piloni, sempre attento e (per lo più) attendibile, attribuisce tale scelta ad un vescovo di Belluno, il secondo di nome Felice» (P. Conte – M. Perale, 90 profili di personaggi poco noti di una provincia da scoprire, Belluno 1999, 113).
Scrive infatti lo storiografo Piloni all’anno 548: «Fioriva [Venanzio] Fortunato vescovo di Pottiers ed era Felice vescovo di Belluno amicissimo di questo Fortunato, il quale ritrovandosi con Fortunato in Ravenna con gran dolore degli occhi, fu fatto sano con l’oglio che ardeva nel tempio del beato Martino; in memoria del qual glorioso Santo ordinò che fosse dedicato il tempio maggior della cittade a Santo Martino. Fu questo Episcopo Felice sepolto nella chiesa di Santa Maria di Val de Nere nel villaggio di Bolago, territorio bellunese, dove si era ridotto ad habitare per fuggire i bellici tumulti e per star lontano dalli Arriani» (Historia della Città di Belluno, cit. ibidem). Non c’è unanime consenso tra gli storici nell’interpretare questa notizia, visto che la stessa guarigione è ricordata da Paolo Diacono per un omonimo vescovo di Treviso, lui pure amico di Venanzio Fortunato (cfr. Historia Langobardorum II.13). Ad ogni modo, l’antico vescovo di Tours divenne il patrono della città e della diocesi bellunese.
Il suo biografo
Quasi tutto ciò che sappiamo della personalità di Martino è stato tramandato da Sulpicio Severo che – vissuto a stretto contatto con il vescovo – poté raccogliere notizie, porre domande al Santo e interrogare i testimoni. Tra il 395 e il 397, egli pubblicò la Vita Sancti Martini. Il protagonista era ancora vivo e, in quell’epoca, era ben strano pubblicare la biografia di un vivente. Però lo fece e dopo la morte, volle completare lo scritto con tre lettere aperte. Verso il 404-405, compose anche i Dialoghi, resoconto di una lunga chiacchierata tra amici che mettevano a confronto le gesta dei monaci orientali e quelle di Martino.
Martino, piccolo Marte
Per difendere il suo eroe, Sulpicio ha un po’ imbrogliato le carte: ha limato e accorciato il passato da militare, nascondendo la data di nascita di Martino e rendendolo più giovane di vent’anni. Gli ecclesiastici non vedevano di buon occhio chi aveva servito in armi. Di fatto Martino era stato militare e non per soli cinque anni, come cerca di farci credere Sulpicio.
Era nato verso il 316-317 a Sabaria in Pannonia (oggi Szombathely, in Ungheria). Il padre era un tribuno dell’esercito romano e, fin nella scelta del nome, progettava per il figlio la carriera militare: doveva essere un “piccolo Marte”, dio della guerra. Quindi la famiglia si trasferì a Pavia, dove Martino venne ammesso tra i catecumeni. Ma a quindici anni, pressato dal padre e dalle leggi che obbligavano alla leva i figli dei militari, Martino entrò nell’esercito e venne assegnato al corpo di guardia dell’imperatore, le scholae palatinae.
In questo periodo si colloca l’episodio del mantello condiviso con un povero che, alle porte della città di Amiens, supplicava i passanti. I commilitoni derisero Martino per quel povero mantello che gli restava; ma nella notte, egli sognò il Cristo, vestito dell’altra metà del mantello, che proclamava: «Martino, ancor catecumeno, mi ha ricoperto con questa veste». Era lo stesso Gesù che nei vangeli aveva detto: «Ero nudo e mi avete vestito» (Mt 25,40). Verso i diciott’anni (nel 334), Martino ricevette il battesimo. Restò in servizio nell’esercito per altri ventidue anni: il suo reparto non era impegnato nei combattimenti, ma nella custodia del principe.
Da soldato a cercatore di Dio
Nei primi mesi del 356, a Worms, dopo quarant’anni di regolare servizio, Martino si congedò e si mise alla scuola di Ilario di Poitiers (315-367). Questi tentò di ordinarlo diacono, ma Martino accettò soltanto l’ordine minore dell’esorcista: e infatti lottò contro il demonio per tutta la vita.
Ilario invece in quei mesi combatteva contro l’eresia ariana e per questo venne esiliato in Frigia. A Martino non rimase che mettersi in pellegrinaggio: raggiunse la Pannonia e convertì la madre. Tornò a Milano, ma il vescovo ariano Aussenzio (355-374) lo costrinse a fuggire. Allora si ritirò con un compagno di avventura sulla piccola isola di Gallinara, davanti ad Albenga, che diventò il primo eremo occidentale.
Nel 361 intanto Ilario era ritornato in sede: Martino lo raggiunse a Poitiers, per installarsi a Ligugé: attorno a lui si raccolsero altri anacoreti e questa può essere considerata la prima fondazione monastica d’Occidente.
Vescovo suo malgrado
La Chiesa di Tours era da tempo priva di vescovo: il 4 luglio 371 il popolo puntò su Martino. Per farlo uscire dal monastero, gli chiesero di soccorrere una donna ammalata. E invece lo condussero a Tours, acclamandolo vescovo. I vescovi del vicinato, intervenuti per la consacrazione, erano perplessi per la scelta: Martino aveva un portamento dimesso, non aveva cultura, il suo passato era compromesso nella vita militare. Ma la vox populi fu più forte: Martino divenne vescovo e lo fu per 26 anni. Vescovo suo malgrado, restò monaco nel cuore: prima tentò di continuare la vita ascetica nella sacristia della cattedrale; poi, nel 375, si spostò a circa due miglia dalla città, fondando il monastero di Marmoutier. Una novità per l’Occidente: vescovo e monaco allo stesso tempo, Martino divideva la sua giornata tra l’ascesi e l’impegno missionario nelle vicinanze di Tours, tanto che venne chiamato…
…“l’apostolo delle campagne”
Il suo primo atto episcopale fu un “discernimento degli spiriti”: di fronte a una tomba, erroneamente venerata come quella di un martire, Martino chiese al Signore di rivelare chi vi fosse sepolto. Nella preghiera gli fu rivelato che in quella tomba non era sepolto un sant’uomo, ma un brigante giustiziato per i propri delitti. Intervenne anche in seguito, nel caso di sedicenti profeti, che ammaliavano anche i colleghi vescovi con le loro pseudo-rivelazioni.
Ma il biografo, secondo il gusto del suo tempo, ci regala soprattutto una raccolta di fatti miracolosi. Martino si impegnò contro l’idolatria, che ancora era diffusa nelle campagne della Gallia. Egli è un vescovo missionario, che esce dalla città, fa esorcismi, guarisce gli ammalati. La paglia del suo giaciglio è una reliquia contesa dal popolo, che vede in lui un liberatore dalle malie dei culti pagani. Quando nelle campagne rade al suolo i santuari pagani o gli alberi sacri, lo fa perché conosce quale giogo quelle credenze imponessero al popolo. Noi oggi grideremmo all’intolleranza in quelle pagine in cui Martino distrugge i santuari pagani. In quei secoli i cristiani intravedevano presenze demoniache nelle divinità pagane: le statue della mitologia, gli amuleti, i feticci e altri vestigi temuti o adorati nel paganesimo, erano ritenuti sedi della presenza demoniaca; gli dèi dell’Olimpo venivano considerati davvero esistenti, come divinità invertite, che si presentavano come Dio, ma ne erano una falsa imitazione. Martino combatteva queste credenze per liberare la sua gente da una schiavitù.
Il diavolo scatenato
Colpiscono i numerosi episodi in cui il Santo combatte contro un demonio, che si insinuava fin nelle celle del suo monastero. È il caso di un giovane monaco, che pretendeva di essere considerato un profeta e il messia; annunciava che avrebbe ricevuto dal cielo una veste sfolgorante e così avvenne; ma la veste svaporò, quando il presuntuoso monaco venne trascinato a forza davanti a Martino, capace ancora una volta di discernere gli spiriti.
Il demonio «con grandi astuzie tentò anche Martino»: gli appariva nelle vesti delle divinità dell’Olimpo, lo insultava, gli rinfacciava di «aver accolto nel monastero, in seguito alla loro conversione, alcuni fratelli che un tempo avevano sciupato il battesimo in differenti traviamenti». Era il grande accusatore che accusava i fratelli (Ap 12,10), smascherava «le colpe di ciascuno» e tentava di inchiodare i cristiani nella disperazione per i peccati commessi. Martino gli rispose, proclamando la misericordia di Dio, e dicendo addirittura che, «se anche tu, sciagurato ti pentissi delle tue azioni, sarei io a prometterti misericordia».
Alla fine gli apparve nelle vesti del Cristo trionfatore: «Riconosci, Martino, colui che vedi! Io sono il Cristo. In procinto di discendere sulla terra, prima ho voluto manifestarmi a te». Martino lo smascherò abilmente: «Il Signore Gesù non predisse che sarebbe venuto vestito di porpora e splendente della luminosità d’un diadema; io non crederò che Cristo sia venuto, se egli non presenterà i segni della croce», i segni della passione.
Ma non è solo Martino ad essere vittima dell’avversario. Sullo sfondo dei Dialoghi traspare la figura del successore Brizio, che era stato allevato da Martino come un figlio, ma era diventato un figlio degenere. Sul finire dell’opera Sulpicio racconta un episodio di possessione: «Un giorno Martino vide due demoni starsene sull’alta rupe che sovrasta il monastero e di lì, sguaiatamente allegri, lanciare un urlo di esortazione di questo tipo: “Forza Brizio! forza Brizio!”… Brizio entra furibondo: in preda alla pazzia, vomita addosso a Martino mille insulti… aggredì Martino al punto che per poco non lo picchiava; il Santo invece, col volto sereno e l’animo tranquillo, frenava la pazzia di quell’infelice con parole pacate… Diceva che Martino – cosa che non poteva negare – all’inizio si era imbrattato in azioni militari e ora era invecchiato tra vane superstizioni e i ridicoli fantasmi delle sue visioni, perso nei deliri». Martino liberò Brizio dal demonio e questi chiese umilmente perdono. Gli episodi dovevano essere frequenti, visto che Martino commenò: «Se Cristo sopportò Giuda, perché io non dovrei sopportare Brizio?».
L’altro povero infreddolito
Un giorno d’inverno, un povero seminudo chiese un vestito al vescovo Martino. Egli lo affidò alle cure dell’arcidiacono, che però trascurò l’ordine. Al che il poveruomo si infilò in sacristia, lagnandosi ancora con Martino, che si tolse la tunica, la diede al povero e lo accomiatò. Venne l’arcidiacono a ricordargli l’inizio della celebrazione, ma Martino disse che non poteva entrare in chiesa, se il povero non avesse prima ricevuto una veste. Il prete si giustificò: il povero non era più reperibile. Martino disse: «Sia portata a me la veste che era pronta; non vi mancherà un povero da vestire!». L’arcidiacono, irritato da tanta insistenza, comperò nelle botteghe vicine una veste grossolana e la scagliò davanti al vescovo: «Ecco la veste, ma il povero non c’è!». Il Santo indossò la veste grezza e con questa salì a celebrare, sotto gli occhi impietriti del clero diocesano.
Di fronte ai potenti
Anche a quei tempi i potenti brillavano per crudeltà. In particolare, Martino si oppose ad Aviziano, un funzionario imperiale plenipotenziario, personalità psichicamente tormentata: affezionato a Martino, era però volubile nel comportamento, ordinava esecuzioni e poi, se glielo chiedeva Martino, liberava i condannati. Questi ebbe con lui un serrato confronto, per convincerlo a un gesto di clemenza nei confronti di un gruppo di condannati. E quando l’imperatore Valentiniano (364-375) gli negò udienza, Martino con la preghiera ottenne che gli si aprissero le porte del palazzo.
Un momento drammatico
La statura di Martino si avverte in un episodio poco noto, ma di grande modernità. Negli ultimi anni, si trovò nell’occhio del ciclone per essersi opposto alla condanna capitale per eresia decretata su Priscilliano e seguaci. Nel 384 era stato accusato di magia nera e di immoralità. L’usurpatore Massimo lo fece imprigionare con i suoi seguaci. Martino tentò ogni via per evitare la condanna a morte, sottolineando che «era inaudito e nefasto che un affare ecclesiastico fosse giudicato da un giudice secolare». Tentò una missione a corte, ma appena il vescovo lasciò la corte, il principe affidò la causa a un giudice crudele e il processo si chiuse con l’esecuzione di Priscilliano e di altri seguaci. Fu il primo caso nella storia di condanna a morte per eresia. Massimo poi incaricò altri inquisitori di mettere fine all’eresia. Martino lo seppe e si incamminò verso Treviri, per tentare una nuova mediazione. Il suo intervento fu inutile e – come se non bastasse la sconfitta – gli vennero pure addebitati sospetti di fiancheggiamento all’eresia. Dopo questi fatti l’episcopato gallico fu diviso fino al 398. Martino, da parte sua, «visse ancora sedici anni dopo quel fatto ma si astenne da tutte le riunioni dei vescovi».
La morte di Martino
Martino morì l’8 novembre 397, dopo 26 anni di episcopato, nel villaggio di Candes, dove si era trascinato per appianare la discordia che divideva i chierici locali. L’ultimo dei suoi miracoli fu riportare la pace nella Chiesa, vincendo il male seminato dal diavolo “divisore” (il suo nome significa questo).
Aveva ormai 81 anni; a Candes venne bloccato dalla febbre. I seguaci lo accompagnarono nell’ultima ora, supplicandolo: «Perché, padre, ci abbandoni e a chi ci lasci nella desolazione? Lupi rapaci invaderanno il tuo gregge; chi ci difenderà dai loro morsi, dopo che il pastore sarà stato percosso?». Martino si affidò alla volontà di Dio: «Signore, se sono ancora necessario per il tuo popolo, non rifiuto la fatica: sia fatta la tua volontà». All’affidamento finale, vide il diavolo accanto a sé e gli disse: «Perché sei qui, bestia sanguinaria? Contro di me, funesto, non troverai niente». Le ultime parole del grande esorcista allontanarono il nemico, che tentava di distrarlo da Dio proprio nell’ora della morte. E «Martino viene accolto lieto nel seno di Abramo; Martino, povero e umile, entra ricco nel cielo».
L’11 novembre la salma venne solennemente portata in città per la sepoltura: un grandioso funerale, cui partecipò una moltitudine di monaci e di popolo. Tutti piangevano per la perdita e gioivano insieme, perché Martino aveva raggiunto il Signore. La memoria di quel grandioso funerale fissò la data della sua festa.
tratto da Davide Fiocco
L’altra metà del mantello,
TiPi edizioni, Belluno 2014
LA STORIA DI MARTINO NEL POLITTICO DELLA CRIPTA DELLA CATTEDRALE