Santuario del Nevegal - 14 settembre 2025

La biglia blu

Lo splendido libro nel quale Dio ci parla e ci trasmette qualcosa della sua bellezza e della sua bontà

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Domenica 14 settembre, alle ore 10.30, presso il santuario di Nevegal, la celebrazione della Messa è stata prevista all’aperto. Non per una stravaganza che vuole porsi in contrapposizione alle celebrazioni classiche in chiesa, ma per portare anche la comunità celebrante all’interno del creato stesso, per «riconoscere la natura come uno splendido libro nel quale Dio ci parla e ci trasmette qualcosa della sua bellezza e della sua bontà», come scriveva papa Francesco nell’enciclica Laudato Si’ (LS 12).

Molto significative le parole usate dal Rettore, don Diego Puricelli nell’omelia, che qui riprendiamo integralmente.

 

Festa dell’esaltazione della Santa Croce

Vorrei aprire questa riflessione con un salto indietro nel tempo, al 7 dicembre 1972. In quel giorno di dicembre di più di cinquant’anni fa, nacque una delle immagini più celebri e iconiche della storia dell’umanità: la Blue Marble, la “Biglia Blu”. A scattarla furono gli astronauti della missione Apollo 17 della NASA, durante il viaggio verso la Luna. Per la prima volta l’umanità poteva contemplare la Terra intera, raccolta in un solo sguardo. E come appariva? Come un piccolo globo azzurro, luminoso e fragile, sospeso nell’immensità dello spazio. In quell’istante, come avrebbero poi raccontato gli stessi astronauti, abbiamo intuito che «tutto ciò che siamo, tutto ciò che amiamo, l’intera storia dell’umanità era racchiusa lì, in quella minuscola biglia blu». Fu la prima volta che ci vedemmo dall’esterno: senza confini, senza divisioni, ma come abitanti di una sola casa comune, preziosa e fragile. Questa esperienza – a metà tra lo psicologico e il mistico – è stata condivisa da tutti coloro che hanno varcato i confini dell’atmosfera terrestre. Per descriverla è stato coniato perfino un termine: Overview Effect, l’«effetto della visione d’insieme». Al ritorno sulla Terra, molti astronauti hanno confessato di aver provato un senso profondo di meraviglia, di riverenza e di responsabilità: un impulso a prendersi cura del pianeta, l’unica casa che abbiamo.

Ho voluto iniziare con questa immagine perché la trovo altamente evocativa, soprattutto se la mettiamo in dialogo con la cornice che ci avvolge questa mattina: la natura che ci ospita come una cattedrale a cielo aperto. Gli alberi, il paesaggio, ogni elemento del creato ci invita a riconoscere la bellezza del dono ricevuto e ci spingono, ci invitano a celebrare l’Eucaristia (nel senso etimologico del termine, cioè a rendere di
grazie).

Oggi celebriamo la festa dell’Esaltazione della Santa Croce, il mistero grande della nostra redenzione, dell’amore di Dio per noi. E allora sorge spontanea una domanda: che legame c’è tra la croce e il creato? Che cosa unisce il legno della croce alle sfide del cambiamento climatico, alla custodia della biodiversità, alla minaccia di estinzione che grava su tante specie viventi del nostro pianeta?

Qualcuno risponderebbe: niente! La croce non c’entra nulla con il creato. Dio – così proclamiamo ogni domenica nel Credo – si è incarnato «per noi uomini e per la nostra salvezza». Il creato, allora, non sarebbe che il palcoscenico di un dramma che ha come unici protagonisti Dio e l’uomo. Da qui nasce, in non pochi cristiani, una diffidenza verso i temi ecologici: talvolta liquidati come ideologia, se non addirittura come idolatria (basti pensare alle polemiche sulla Pachamama). Non di rado, infatti, gli stessi che si dichiarano fedeli e devoti al magistero papale liquidano con sarcasmo – e non senza una buona dose di ipocrisia – l’enciclica Laudato si’, ribattezzandola «l’enciclica degli orsi polari», senza coglierne la portata profetica e profondamente evangelica.

Eppure, se torniamo alla Scrittura, scopriamo qualcosa di davvero interessante. Pensiamo al grande comandamento dell’amore, che si declina in due direzioni: amare Dio sopra ogni cosa e amare il prossimo come se stessi. Gesù allarga i confini di quel “prossimo”, includendo chi era, tradizionalmente, considerato escluso: i samaritani, i pagani. Perché non applicare questa stessa ermeneutica al nostro tempo, includendo anche il creato come “prossimo”? Non è un’idea peregrina: la comunità dei viventi ha un’origine comune. Tutti, piante, animali, esseri umani, discendiamo da un unico antenato, una piccola cellula apparsa sulla Terra
3 miliardi e mezzo di anni fa, che la scienza chiama LUCA (Last Universal Common Ancestor: l’Ultimo Antenato Comune).

Siamo dunque parenti stretti di tutto ciò che vive e immersi in una rete invisibile di relazioni da cui dipende la nostra stessa vita. Persino il nostro corpo non è fatto solo di cellule umane: ospita circa 40.000 miliardi di batteri, che ci aiutano a digerire, producono vitamine, rafforzano il sistema immunitario e ci proteggono dai patogeni. Senza di loro non potremmo vivere.

Eppure, nonostante questa fitta interdipendenza con tutti i viventi, l’uomo troppo spesso si è comportato come un figlio unico, appropriandosi del creato e piegandolo al proprio interesse. La casa comune, affidataci per essere custodita, l’abbiamo invece ferita, sfruttata, deturpata. «Tutta la creazione» – ci ricorda san Paolo – «geme e soffre le doglie del parto» (Rm 8,22).

Questo atteggiamento ha prodotto quella che oggi riconosciamo come una vera e propria crisi ecologica, che — come ci ha più volte ricordato Papa Francesco — è inseparabile dalla crisi sociale che stiamo vivendo. Non si tratta di due problemi distinti, ma di un’unica grande crisi socioambientale, dove le ferite della terra e le ferite dell’uomo si intrecciano. Pensiamo, ad esempio, ai cambiamenti climatici che colpiscono con maggiore violenza le popolazioni più fragili, costrette ad abbandonare le
proprie terre; pensiamo alla perdita di biodiversità che mette a rischio l’equilibrio degli ecosistemi da cui dipende anche la nostra sopravvivenza; pensiamo all’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo, che grava in modo particolare sulla vita dei poveri.

In questa luce comprendiamo meglio che custodire il creato non è un lusso per ambientalisti, ma un’urgenza che riguarda la giustizia, la dignità, il futuro stesso dell’umanità. Torniamo allora alla domanda iniziale: che cosa c’entra la Croce con il creato? Molto più di quanto immaginiamo. La Croce, infatti, è l’abbraccio di Cristo che stringe a sé il mondo intero, ogni creatura in cui c’è alito di vita. Dalla sua salvezza scaturisce per noi il compito di custodire e alimentare la vita, tutta la vita.

Alla scuola della Croce, insomma, impariamo a dilatare lo sguardo, fino ad abbracciare la nostra casa comune. E in quella fragile “biglia blu”, sospesa nell’universo, riconosciamo il luogo in cui si compie la storia dell’amore di Dio: «tutto ciò che siamo, tutto ciò che amiamo, l’intera storia dell’umanità racchiusa in un piccolo globo luminoso».