C’è un momento della nostra vita che è importantissimo: eppure, nessuno di noi se lo ricorda. Festeggiamo il giorno del nostro compleanno, il giorno in cui siamo venuti alla luce: non ci soffermiamo nel mistero dei mesi precedenti, una tappa complessa, per certi addirittura pericolosa, affascinante. Gli studi scientifici ci dicono che, in questo tempo, trascorso nella pancia della mamma, immagazziniamo voci e suoni del mondo circostante, pronti, dopo la nascita, ad affrontare la vita. Riconoscere la voce è un’abilità ancestrale, che ci permette di allertare i nostri sensi, evitare i pericoli, correre incontro alle persone di cui ci fidiamo e che amiamo.
Del Pastore, le pecore riconoscono la voce: non le parole, i contenuti, nemmeno la lingua. La voce, che non rimane un suono tra tanti altri nella confusione dei rumori del mondo, ma che viene ascoltata: le pecore diventano attente, si concentrano, si sintonizzano con la mente e con il cuore sulla voce del Pastore.
Fuori di metafora, è il cammino che anche noi viviamo nella fede: se siamo qui, ci è capitato almeno in un momento, in un’intuizione, in un’esperienza, di riconoscere la voce del Pastore. Di avvertirla piena di affetto, carica di un amore che custodisce e incoraggia, di scoprirla come promessa per la nostra vita. Certo, decodificarla, decriptarla, ascoltarla – che significa ascoltarla, accoglierla, farla diventare vita – è un esercizio che compiamo ogni giorno, a volte senza problemi, altre volte con maggiore difficoltà.
La liturgia del Tempo Pasquale continua a raccontarci la fatica di accogliere la Parola e la gioia che consegue l’apertura del cuore, della mente, degli occhi e delle orecchie. “Io do loro la vita eterna”: il verbo dare, nel testo giovanneo, è un presente. Non è una promessa lontana, che ci aspetta dopo la morte: è qualcosa che tocca anche il nostro presente, pur non esaurendosi qui. È qualcosa che lo riempie, lo apre, lo arricchisce, facendocelo gustare in tutta la sua bellezza e importanza e, allo stesso tempo, rimandando al compimento futuro. La vita eterna che il Pastore dona alle sue pecore è lo spazio aperto dall’ascolto della Parola, dalla lettura delle nostre vite alla Sua luce, dalle azioni e dai sentimenti che essa suscita: vita eterna è entrare nell’intensità della vita di Dio, nella profondità dell’amore di Dio, nella radicalità del Suo dono per la vita dell’altro, degli altri.
Ci sono momenti, nella nostra vita, in cui sentiamo semplicemente vivi, felici, pieni: ci sono momenti in cui non ci manca niente, che vorremmo che durassero per sempre, in cui l’unico sentimento che alberga nel nostro cuore è una profondissima gratitudine per la bellezza della vita. Sono assaggi di vita eterna, che trasfigurano i momenti bui e il grigiore della quotidianità. Sono assaggi di vita eterna che ci rendono ancora più capaci di ascolto, di ricerca appassionata, di desiderare di condividere l’eternità che abbiamo ricevuto e sperimentato con i fratelli e le sorelle che incontriamo. Sono assaggi di vita eterna in cui ci sentiamo chiamati per nome con amore, nella nostra unicità, nella nostra storia, per quello che siamo. Sono assaggi di vita eterna che possono diventare spunti, cammino di ricerca di chi siamo, scelte di vita. Sono assaggi di vita eterna che ci ricordano che nulla – la violenza, la crisi climatica, le minacce globali, la morte, i nostri sbagli, i giudizi degli altri – può strapparci dalla mano del Pastore (lo ripete due volte Gesù, come se fosse una paura che sottilmente ci abita e che deve allontanare).
Lì, in quelle mani, siamo nel posto più sicuro del mondo. Come nella pancia della mamma, pronti a vivere. A crescere. Ad essere amati e ad amare.
Nell’immagine: particolare del buon Pastore nel mausoleo di Galla Placidia a Ravenna (foto da facebook)