La riflessione del vicepresidente del Consiglio pastorale diocesano

Fratelli tutti… e sorella morte

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L’enciclica “Fratelli tutti” è uno “spazio di riflessione sulla fraternità universale”, ispirato principalmente a San Francesco, che “si sentiva fratello del sole, del mare e del vento” e “sapeva di essere ancora più unito a quelli che erano della sua stessa carne” e, nella sua vita “dappertutto seminò pace e camminò accanto ai poveri, agli abbandonati, ai malati, agli scartati, agli ultimi” (FT, n. 2).

Papa Francesco indica quali possono essere gli ostacoli alla fraternità e offre spunti interessanti di meditazione sui rapporti fra conflitti e paura, affermando che “in ogni guerra ciò che risulta distrutto è lo stesso progetto di fratellanza, inscritto nella vocazione della famiglia umana” (FT, n. 26) e che “la paura ci priva del desiderio e della capacità di incontrare l’altro” (FT, n. 41). Anche ai nostri giorni esiste “il rischio di vivere proteggendoci gli uni dagli altri, vedendo gli altri come concorrenti o nemici pericolosi” e, “forse siamo stati educati in questa paura e in questa diffidenza” (FT, n. 158). Esiste anche una certa politica che “semina l’odio e la paura verso altre nazioni in nome del bene del proprio Paese”, di fronte a cui “reagire in tempo” cercando di “correggere immediatamente la rotta” (FT, n. 192). La guerra, infatti, “si nutre del pervertimento delle relazioni, di ambizioni egemoniche, di abusi di potere, di paura dell’altro e della diversità vista come ostacolo” (FT, n. 256). Non si può pensare “che la soluzione ai problemi attuali consista nel dissuadere gli altri mediante la paura, minacciandoli con l’uso delle armi nucleari, chimiche o biologiche”, perché “dobbiamo anche chiederci quanto sia sostenibile un equilibro basato sulla paura, quando esso tende di fatto ad aumentare la paura e a minare le relazioni di fiducia fra i popoli. (FT, n. 262).

Di fronte al problema della guerra, il papa propone l’esempio di San Francesco, che visse in un “momento storico segnato dalle crociate” e, durante queste guerre sanguinose fra cristiani e saraceni, decise di mettersi in viaggio per far “visita al Sultano Malik-al-Kamil in Egitto”, invitando i suoi discepoli a “evitare ogni forma di aggressione o contesa e anche di vivere un’umile e fraterna ‘sottomissione’, pure nei confronti di coloro che non condividevano la loro fede” (FT, n. 3). Ad Assisi è tuttora conservato un olifante, un corno di ebano e argento, e la tradizione leggendaria racconta che questo fu il regalo del sultano a Francesco, in ricordo del loro incontro: un corno che il “poverello” avrebbe conservato fino alla morte, utilizzandolo forse per chiamare a raccolta i suoi “frati”. Il papa invita, sull’esempio di San Francesco d’Assisi, ma anche di “altri fratelli che non sono cattolici” come “Martin Luther King, Desmond Tutu, il Mahatma Gandhi e molti altri”, e poi, in particolare, ricordando il “cammino di trasformazione “ del “Beato Charles de Foucauld”, ad “adottare la cultura del dialogo come via, la collaborazione comune come condotta, la conoscenza reciproca come metodo e criterio” (FT, nn. 285-286).

C’è un altro spunto di riflessione interessante: papa Francesco ricorda che “proprio mentre stavo scrivendo questa lettera, ha fatto irruzione in maniera inattesa la pandemia del Covid-19, che ha messo in luce le nostre false sicurezze” (FT, n. 7). Ripercorrendo con la memoria quanto è accaduto nei mesi passati, possiamo ricordare la fase in cui il pericolo sembrava riguardare solo la Cina e quello in cui i cinesi che vivevano in Italia venivano guardati con paura e sospetto; poi, quando il virus si diffuse in Italia, prima che negli altri paesi europei, la fase in cui furono gli italiani a essere guardati con paura e sospetto; infine il periodo, più drammatico, in cui anche relazioni interpersonali con le persone a noi più care, amici, familiari, sono state contagiate dalla paura e dal sospetto. Una situazione difficilmente sostenibile a lungo, che, per reazione, una volta che il peggio è stato apparentemente superato, ha portato al diffondersi di atteggiamenti negazionisti. Non si può vivere a lungo dominati dalla paura, bisogna trovare qualche meccanismo di difesa: negare o rimuovere il problema è una delle possibili “soluzioni”.

A ben guardare, tuttavia, non è solo la paura dell’altro a interferire con le relazioni interpersonali; c’è una paura più profonda, vissuta a livello personale e, contemporaneamente, collettivo. Una situazione che non si verifica spesso, ma che ha caratterizzato la storia delle società umane anche in passato, nel corso delle varie e diverse pestilenze. Ciò che accomuna la pandemia attuale con la storia del passato è che, in diverse parti del mondo, tutti stanno sperimentando le stesse emozioni, legate alla precarietà e alla fragilità dell’esistenza umana. Sono gli stessi sentimenti evocati dalle guerre, di cui i poeti ci hanno lasciato ricordi indelebili.

SOLDATI. Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie.

La vita può venire meno all’improvviso, da un momento all’altro, ma non sappiamo quando. Giuseppe Ungaretti, che visse in prima persona la Prima Guerra Mondiale, scrisse un’altra poesia che ci ricorda come il vivere comunitariamente il pericolo della morte, possa creare legami forti di fratellanza, che stridono con l’inimicizia fra i popoli che caratterizza ogni guerra.

FRATELLI. Mariano, 15 luglio 1916. Di che reggimento siete / fratelli? / Parola tremante nella notte / Foglia appena nata / Nell’aria spasimante / involontaria rivolta / dell’uomo presente alla sua / fragilità / Fratelli.

Nella fragilità l’uomo sente più forte il desiderio e il bisogno di fratellanza

“Da settimane sembra che sia scesa la sera. Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi. Ci siamo trovati impauriti e smarriti”. Così papa Francesco descrisse i sentimenti di tutti nel “momento straordinario di preghiera” di venerdì 27 marzo 2020, parlando in una piazza San Pietro insolitamente vuota, ripetendo poi per 5 volte le domande: “Perché avete paura? Non avete ancora fede?”.

La pandemia ha messo in crisi molte persone: la solitudine, la malattia, la morte, ci interrogano. Accadeva anche prima della pandemia, in forma privata; il nuovo coronavirus ha fatto in modo che queste domande diventassero potenzialmente comuni agli uomini di tutto il mondo. La malattia, la sofferenza, ci obbligano a un confronto, a volte duro, con la nostra finitezza, con la nostra fragilità. La tensione tra sofferenza e bisogno di guarigione, è un confronto tra finito e infinito e può aprire alle domande di senso. In Piazza San Pietro papa Francesco ha ricordato a tutti che “l’inizio della fede è saperci bisognosi di salvezza”.

A chi credere in questo periodo difficile?

“Il dolore, la sofferenza, il senso della vita e della morte sono realtà che la mentalità contemporanea fatica ad affrontare con uno sguardo pieno di speranza. Eppure, senza una speranza affidabile che lo aiuti ad affrontare anche il dolore e la morte, l’uomo non riesce a vivere bene e a conservare una prospettiva fiduciosa davanti al suo futuro. È questo uno dei servizi che la Chiesa è chiamata a rendere all’uomo contemporaneo” (Papa Francesco, Discorso all’assemblea plenaria della Congregazione per la dottrina della fede, 26 gennaio 2018). I pazienti con malattie che possono concludersi con la morte hanno bisogni di relazione, emotivi e spirituali a cui, troppo spesso, non veniva e non viene data adeguata risposta: la pandemia ha solo reso ancor più evidente il dramma di una morte in solitudine, lontano dalle persone care. Si è intravvista l’utilità di un recupero del ruolo “curativo” delle relazioni, grazie all’impegno del singolo e delle comunità, in una solidarietà umana che riesce a superare la dimensione privata del soffrire.

In “Fratelli tutti” papa Francesco ha ricordato che “la recente pandemia ci ha permesso di recuperare e apprezzare tanti compagni e compagne di viaggio che, nella paura, hanno reagito donando la propria vita” (FT, n. 54). Commentando la parabola del “buon samaritano” il pontefice ha scritto che “ci sono due tipi di persone: quelle che si fanno carico del dolore e quelle che passano a distanza; quelle che si chinano riconoscendo l’uomo caduto e quelle che distolgono lo sguardo e affrettano il passo. In effetti, le nostre molteplici maschere, le nostre etichette e i nostri travestimenti cadono: è l’ora della verità. Ci chineremo per toccare e curare le ferite degli altri? Ci chineremo per caricarci sulle spalle gli uni gli altri? Questa è la sfida attuale, di cui non dobbiamo avere paura” (FT, n. 70).

E siamo capaci di riconoscerci nel malcapitato che ha bisogno dell’aiuto altrui?

Tornando a San Francesco, la “Leggenda perugina” ci narra che il “Cantico delle creature” venne composto in tre momenti successivi; la prima parte fu creata quando il santo dimorava a San Damiano “ormai gravemente infermo e soprattutto sofferente d’occhi”, in una celletta infestata dai topi e “soffriva notte e giorno”. San Francesco, una notte, “riflettendo alle tante tribolazioni a cui era esposto”, ebbe una sorta di colloquio mistico e sentì una voce che gli disse: “d’ora in poi vivi nella serenità, come se tu fossi già nel mio Regno”. Grazie a questo momento di tregua e sollievo nella sofferenza, al mattino compose “una nuova Lauda del Signore per le sue creature”. Successivamente compose la strofa sul perdono, quindi aggiunse quella finale, poco prima di morire.

La “Leggenda perugina” racconta che, quando Francesco si trovava ad Assisi, “si faceva cantare spesso durante il giorno dai compagni le Laudi del Signore, che lui stesso aveva composto, parecchio tempo prima, durante la sua malattia”; aggiunge che “in quei giorni, un medico di Arezzo, Buongiovanni, conoscente e amico di Francesco, venne a fargli visita. Il Santo lo interrogò sulla propria malattia: «Che te ne pare, fratello Giovanni, di questa mia idropisia?»…Il medico rispose: «Fratello, con l’aiuto di Dio starai meglio». Non aveva il coraggio di dirgli che tra poco sarebbe morto. Ma Francesco insistette: «Dimmi la verità, che cosa prevedi? Non avere paura, poiché, con la grazia di Dio, non sono un codardo che teme la morte. Per misericordia e bontà del Signore, sono così intimamente unito a Lui, che sono ugualmente felice sia della morte che della vita». Allora il medico gli disse schiettamente: «Padre, secondo la nostra scienza, la tua infermità è incurabile, e tu morrai tra la fine di settembre e i primi di ottobre». Francesco, che giaceva a letto ammalato, preso da ardente devozione e reverenza verso il Signore, stese le braccia con le mani aperte ed esclamò con viva gioia intima ed esteriore: «Ben venga la mia sorella Morte!» ”.

Quando in seguito il santo sentì che la sua morte era imminente, fece chiamare due suoi “frati” che “cantarono, in lacrime, il Cantico di frate Sole e delle altre creature del Signore”, a cui egli aggiunse la strofa che inizia con “Laudato sie, mi Segnore, per sora nostra morte corporale”.

Il lungo cammino spirituale di Francesco l’aveva riempito di un amore tale che aveva fatto scomparire anche la paura della morte. L’esempio di vita a cui si ispirava Francesco, alter Christus, era Gesù.

Francesco Laveder