L’anno santo 1625 portò con sé un’innovazione di straordinaria importanza. Papa Urbano VIII (1633-1644), con la bolla Pontificia sollicitudo (28 gennaio 1625), concesse che tutti i fedeli che per le loro condizioni di vita erano impossibilitati a recarsi a Roma potessero ugualmente ottenere l’indulgenza giubilare. Il papa elencava tre categorie di persone: gli ammalati, i carcerati e coloro che erano tenuti alla stretta clausura quali monache e anacoreti (Trappisti, Certosini ecc.). Tutti costoro «pentiti e confessati, esercitando nei luoghi dove risulterà che essi risiedono le pie opere di cristiana pietà e carità, la cui forma dovrà essere prescritta dagli ordinari dei luoghi o dai superiori delle claustrali e degli anacoreti» avrebbero ottenuto la stessa indulgenza e completa remissione di ogni peccato come se si fossero recati pellegrini a Roma e avessero visitato ripetutamente le quattro basiliche giubilari.
Questa innovazione da un lato modificava alla radice l’elemento vitale dell’anno santo, ossia la fusione di indulgenza e pellegrinaggio, ciò che faceva del viaggio a Roma l’elemento essenziale per ottenere questa perdonanza speciale; d’altro lato il Papa si faceva guidare dalla sollecitudine pastorale, affinché il maggior numero possibile di fedeli potesse accedere alle grazie speciali del giubileo. Sollecitudine tanto più evidente per il fatto che egli lascia alla discrezione degli ordinari locali (vescovi e vicari generali) stabilire le condizioni, alle quali persone impossibilitate di portarsi a Roma possono vivere l’anno santo.
Nel successivo giubileo del 1650, Papa Innocenzo X (1644-1655) rinnovava questa grazia promulgando tale e quale il testo del suo predecessore. Quando il dispositivo, promulgato a Roma il 12 febbraio, giunse a Feltre, il vescovo Simeone Difnico si trovava in visita pastorale in Valsugana; fu così il vicario generale Natale Paolini, che diede dettagliate direttive alle monache dei tre monasteri cittadini: San Pietro in Vincoli (1523), a mattina dell’abside della cattedrale, che ospitava 46 agostiniane; Santa Chiara a sud della cattedrale, ove ora è il Seminario, il più antico (1297), in cui vivevano 48 clarisse; Santa Maria degli Angeli (1504), nel Borgo delle Tezze, abitato da 44 clarisse.
Il vicario generale si attardava in un efficace riflessione spirituale su alcuni versetti del Cantico dei Cantici applicandoli alla vita delle vergini consacrate, facendo ricorso anche a passi del bel commento di San Bernardo. Illustrava poi le condizioni in cui le monache potevano vivere il giubileo. Innanzitutto «fare una perfetta confessione, e anche generale se bisognasse»: i confessori deputati avevano, in forza del breve papale, la facoltà di assolvere anche dai peccati riservati alla Santa Sede. Le esortava a ricevere la comunione con maggior frequenza del solito. Quindi dovevano svolgere la visita a quattro altari, così da riprodurre in miniatura la visita alle quattro basiliche romane: l’altare della chiesa del monastero e altri tre altari provvisori da innalzare nel chiostro del monastero. Ciascuna monaca doveva visitare i quattro altari «per trenta giorni continuati overo interrotti, purché li visitiate tutti quattro almeno una volta ciascun giorno, e ciò durante l’Anno Santo presente». In queste visite private, ogni monaca durante il tragitto doveva pregare recitando Salmi, litanie, o più corone del rosario, visto che dovevano sostare anche per un congruo tempo ad ogni altare. Questo modo di vivere il giubileo era esteso alle novizie, alle converse e alle ragazze istruite nel monastero. Per le monache ammalate il confessore avrebbe stabilito le devozioni sostitutive per ottenere l’indulgenza giubilare.
Ma, notava il vicario, dal momento che le preghiere fatte comunitariamente sono più efficaci, avrebbe a breve consegnato alle monache uno schema di liturgia giubilare da svolgere comunitariamente. Lo schema è di una ricchezza straordinaria quanto a segni e testi. La comunità doveva riunirsi nella sala del capitolo, cantata l’antifona “In viam pacis” avviarsi in processione attraverso il chiostro, verso la chiesa al canto del salmo 111 “Iubilate Deo”. Giunte alla porta della chiesa sostano a cantare l’antifona “Haec porta Domini”, quindi il responsorio “Clamor meus”, poi l’abadessa recita una colletta. Entrando in chiesa cantano il salmo 83 “Quam dilecta tabernacula tua” e giungendo ai loro posti in coro si mettono in ginocchio. Terminato il canto l’abadessa legge un’altra colletta, quindi restando in ginocchio recitano il “O sacrum convivium” e infine un’altra colletta. Di seguito leggono le letture e i responsori dell’ufficio del santo fondatore. Quindi cinque volte il Padre Nostro e altrettante l’Ave Maria e il Gloria al Patre «per Sua Santità, per l’essaltatione di Santa Chiesa, per la Serenissima Repubblica di Venetia, esstirpatione dell’heresie, per l’unione de Principi Christiani et per la salute, pace et concordia di sé stesse e di tutto il Christianesimo». Quindi al canto delle litanie dei santi si recano e sostano a ciascuno degli altri tre altari: ad ogni altare tutte in ginocchio elevano le preci liturgiche per il santo in cui onore è l’altare provvisorio e quindi sempre cinque Pater, Ave e Gloria per le summenzionate intenzioni. Finita questa processione stazionale ai quattro altari, concluderanno il rito cantando il Te Deum.
don Claudio Centa
Nella foto: Feltre, Santa Maria degli Angeli, il lato occidentale del chiostro; unico lato superstite, affianca la chiesa.