Nelle scorse settimane, don Claudio Centa, rinomato docente di Storia della Chiesa, ci ha spiegato le circostanze in cui papa Bonifacio VIII (1294-1303) maturò la decisione di indire il primo giubileo della storia.
Sappiamo che fu un successo: il cronista Giovanni Villani (1280-1348) stimò un afflusso di 200 mila pellegrini a Roma, tra i quali eminenti personaggi dell’epoca. Il poeta Dante ricorda che c’era tanta gente da dover imporre ai pellegrini il doppio senso di marcia su ponte Sant’Angelo:
…come i Roman per l’essercito molto
l’anno del giubileo, su per lo ponte
hanno a passar la gente modo coltoche da l’un lato tutti hanno la fronte
verso ’l castello e vanno a Santo Pietro
da l’altra sponda vanno verso ’l monte.(Inferno XVIII, 28-33).
Arrivavano in tanti, perché il Papa aveva concesso l’indulgenza plenaria a quanti, dopo la dovuta confessione, avessero compiuto 30 visite alla Basilica vaticana e a quella di San Paolo fuori le mura. Ai forestieri bastavano 15 visite.
L’indulgenza aveva un significato particolare allora, quando il quarto sacramento non aveva la forma che noi conosciamo. Le opere penitenziali – digiuni, pellegrinaggi o altro – precedevano la riammissione effettiva alla comunione eucaristica. A ben pensare, c’era una buona ragione in quella prassi: i peccati seri, che quasi scavano un solco nel rapporto del cristiano con Dio e per questo sono detti “mortali”, producono una doppia “ferita”: innanzitutto la colpa, che viene tolta dall’assoluzione sacramentale; ma il peccato ha anche altre conseguenze, il disagio che provoca nel fedele e negli altri, il danno o lo scandalo.
È la cosiddetta pena temporale, che veniva riparata tramite la penitenza ecclesiastica. Questa comportava le citate restrizioni che precedevano la riammissione alla comunione. Ed ecco che tramite l’indulgenza veniva depennata (se plenaria) o ridotta (se parziale) la pena temporale, ossia le restrizioni canoniche. Era di fatto uno sconto di pena.
Nei secoli successivi la prassi cambiò, portandoci alla confessione nella forma che conosciamo, circondata della dovuta privacy. Così la pena temporale non ha più avuto il peso di un tempo e spesso la penitenza è limitata a orazioni o devozioni.
Fatto sta, anche dopo l’assoluzione sacramentale, questa pena temporale resta, come insegna l’esperienza: le nostre azioni lasciano un segno in noi e/o fuori di noi. L’assoluzione cancella la colpa, ma non può sciogliere come d’incanto queste “scorie” dell’esistenza, sicché permane in noi un contrasto tra il cuore convertito e la fatica di rendere la vita coerente con la conversione celebrata nel sacramento.
Ad esempio, se porto rancore verso una persona o se c’è stato uno screzio, posso confessarlo e ottenere l’assoluzione, ma il fossato resta. Tanto più resta se quella persona nel frattempo muore. Come riparare?
Oggi l’indulgenza è considerata un aiuto che la Chiesa assicura per raddrizzare queste situazioni; un sostegno che si appella a Gesù e ai meriti dei santi, che sono il cosiddetto “tesoro della Chiesa”. Al penitente è chiesto però un gesto che manifesti la volontà di cambiare: può essere un pellegrinaggio oppure, come oggi si insiste, una significativa opera di carità.
Nel rito diocesano di apertura del Giubileo anche il vescovo Renato ha sottolineato che la parola “indulgenza” ha bisogno «di essere purificata e va sperimentata come vita rigenerata da Dio»; inoltre l’indulgenza «va sperimentata come continuo allenamento a tenere lontane le forze e le lusinghe del male e come aiuto vicendevole a ristabilire la bontà di ciò che si è corroso con la nostra adesione al male; va sperimentata come laboriosa ricerca e attuazione del bene, dal momento che Dio ce ne vuole all’infinito».
L’indulgenza non è una magia o un rito scaramantico. È una promessa di aiuto, tanto seria quanto sincera.
Davide Fiocco