A cura di don Renato De Vido (24ª domenica del tempo ordinario - anno A)

Come anche noi li rimettiamo

Ciò che mi chiede il Signore è di comportarmi con gli altri come lui si comporta con me

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L’atteggiamento del servo di questa parabola scandalizza. Perché non usa misericordia agli altri mentre la pretende. Eppure, se Gesù racconta la storia, significa che la riscontra intorno a sé, e quindi in noi.

Il tema del perdono non è più argomento devozionale; ci tocca in prima persona, quando leggiamo di branchi che stuprano donne, quando assistiamo, attoniti, alle bravate di giovani stravolti dall’alcol e dalla cultura aggressiva. Che cosa significa, in questi casi, perdonare? Non è un cedimento? E se l’altro approfitta del perdono? E se insiste?

1. Dio non mi chiede di perdonare per ottenere il suo perdono. Ciò che mi chiede il Signore è di comportarmi con gli altri come lui si comporta con me. Se mi sento giusto, se penso che non faccio del male a nessuno, non posso capire la logica di questa parabola, perché non mi riguarda.

Se invece, mi rendo conto di quanto sono perdonato, per lo meno sarò meno spietato e più comprensivo nei confronti degli altri. Dio mi perdona e pensa che ciò dovrebbe portarmi a perdonare gli altri; e se questo è vero, il “Padre nostro” nella nuova versione che ci stiamo abituando a usare, aggiunge un “anche”: rimetti come anche noi rimettiamo.

2. Pietro fin dall’inizio è preoccupato della “misura”, della “quantità”. Gesù gli sconvolge il conteggio, portandolo all’infinito. Se io perdono è perché comincio a capire un po’ della vita di Dio, mi adeguo al suo insegnamento, accetto che siano “beati i misericordiosi”.

Ecco perché l’accentuata sproporzione del debito nella parabola: centinaia di migliaia contro pochi centesimi di euro. Rivela il divario fra il gesto di Dio e il nostro. Questa parabola è formulata per chi si rende conto d’essere debitore per lo meno del dono della vita, e del dono della vita di Gesù.

Nel racconto, però, il perdono non cambia il cuore del servo: l’ha fatta franca, è incredulo, euforico, non stupito della misericordia del padrone. Il perdono non l’ha cambiato, non lo ha fatto riflettere, non lo ha convertito alla misura del cuore di Dio. Nel suo cuore indurito non c’è posto alla pietà per l’altro servo; non c’è posto per la sorpresa.

3. Chi sa perdonare è uno che conosce l’uomo. Perché so i limiti miei, perché non sono un perfezionista, perché la persona umana non è fatta solo di ragione ma anche di sentimenti, perché sperimento la fatica nel maturare… Non pretendere né da se stessi né dagli altri il perdono perfetto, che non si raggiungerà mai, ma esercitare il perdono possibile. Nella concretezza di ciò che sono devo dare il massimo. Chiamati a perdonare perché perdonati, non perché più buoni.

Se non riesco a perdonare, per lo meno prego per chi mi ha offeso e fatto soffrire; se non mi basta il mio povero cuore per cancellare i debiti morali col prossimo, metto tutto nel cuore di Dio. Quello sì che è grande! E ha una “capienza” che supplisce tutte le mie misure troppo piccole o insufficienti.