Riproposte dalla Commissione per la pastorale sociale e del lavoro

Due riflessioni dopo l’alluvione di fine ottobre

Cesare Lasen e Michele Cassol, membri della Commissione

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«Ripensare i modelli, ridurre i consumi»

I dissesti ecologici riflettono una crisi che è anche sociale, etica, globale

Il naturalista bellunese Cesare Lasen ha scritto una riflessione per il sito internet della Fondazione Dolomiti Unesco. Ne riprendiamo alcuni passaggi particolarmente significativi.

«Sappiamo che i processi naturali, e le successioni ecologiche possono contribuire a rimarginare le ferite, ma solo in tempi molto lunghi. In tal senso preoccupano alcune forme di interventismo che pensano alla ricostituzione del patrimonio boschivo attraverso reimpianto artificiale.

«Ma la preoccupazione, non da oggi, riguarda lo scenario del cambiamento climatico e la possibilità che simili eventi possano ripetersi con sempre maggiore frequenza. Le responsabilità derivanti dai nostri comportamenti e consumi non sono un’opinione, ma un dato di fatto ormai insindacabile.

«Converrebbe, a tal proposito, rileggere con attenzione alcuni passaggi dell’enciclica Laudato Si’ che non si limita a denunciare lo stato di sofferenza del pianeta, ma riconduce i dissesti ecologici a una crisi che è anche sociale, etica, globale e che origina sempre nuove disuguaglianze. Per continuare a vivere in questi luoghi, bellissimi ma fragili, necessitano misure adeguate che contribuiscano a restituire prospettive di speranza.

«Ma serve, anzitutto, ripensare ai modelli di sviluppo, per assecondare le funzionalità ecosistemiche, senza la pretesa di costringere i torrenti in alvei ristretti, di costruire ovunque, di aumentare le emissioni di anidride carbonica e di altri gas che favoriscono l’effetto serra. Ciò significa agire anche sui consumi, pensare a ridurli evitando sprechi, a rinaturalizzare i corsi d’acqua piuttosto che a nuove arginature, a coltivare i boschi rispettando maggiormente la vocazione (impianti coetanei sono più fragili). Va rilevato che è falsa e fuorviante l’idea che i disastri siano dipesi dall’abbandono. Certo adeguate manutenzioni sono necessarie e auspicabili, ma dovremmo prepararci ad affrontare altri eventi con la consapevolezza che la Natura esige maggiore rispetto e attenzione.

«Per semplificare, continua ad aver senso pensare a nuovi impianti per lo sci alpino considerato l’attuale trend climatico? Siamo davvero sicuri che essi siano la panacea per promuovere nuovo sviluppo? E visto che le nostre acque sono già ovunque molto sfruttate ha senso insistere con nuove centraline?

«In questo evento, a parte i morti e i disagi che richiederanno tempo e investimenti per un ripristino almeno essenziale, ha colpito la devastazione del patrimonio boschivo, manifestatasi in una misura senza precedenti (pur auspicando che la stima di 100.000 ettari distrutti, corrispondenti alla metà dell’intero patrimonio boschivo provinciale sia un arrotondamento in eccesso). I danni risultanti, in attesa di un censimento preciso, sono paragonabili forse solo ai due eventi bellici del secolo scorso. Solo un senso di profondo rispetto, derivante anche dalle conoscenze scientifiche, ci potrà aiutare a individuare soluzioni per superare un quadro che non è ancora definito nelle sue dimensioni e nell’irregolare ripartizione geografica, ma che non lascia dubbi circa la sua origine e i nefasti risultati di scelte che hanno privilegiato risultati economici di breve periodo rispetto ai tempi richiesti dagli ecosistemi per rigenerare la loro capacità produttiva e di stabilizzazione. Non mancano, in proposito, correnti di pensiero che tenderanno a individuare le cause nell’abbandono e nello scarso sfruttamento del patrimonio forestale. Ciò significherebbe allontanarsi dalle cause reali e insistere ciecamente nelle forme tradizionali di sfruttamento, penalizzando sempre più le generazioni future, verso le quali stiamo indebitandoci forse irreversibilmente».

Cesare Lasen

 

Un cataclisma, ma tornerà il bosco

I boschi a terra fanno impressione. Era mai capitata una cosa del genere in provincia di Belluno?

«No. Una cosa del genere, un fenomeno così ingente, a me non risulta sia mai successo. Ogni anno si verificano degli schianti dovuti al vento e alla neve, qua e là, un po’ in tutto il territorio provinciale, ma sono sempre episodi localizzati. Nel 1966 accaddero fenomeni più estesi, ma non mi pare proprio che abbiano avuto entità paragonabili a quel che è successo stavolta».

Michele Cassol, che per otto anni è stato presidente dell’Ordine dei dottori agronomi e dei dottori forestali della provincia di Belluno, non ha dubbi: siamo di fronte a un cataclisma, a una tragedia. E i boschi pagano un prezzo molto alto per quel che è successo.

È vero che la vittima principale è l’abete rosso?

«La maggior parte delle piante cadute e sradicate appartiene all’abete rosso, che ha radici superficiali e tende a sradicarsi. Tant’è vero che in mezzo alle piante abbattute capita di scorgere dei larici, gialli in questa stagione: qua e là i larici sono rimasti su, perché hanno un apparato radicale più profondo e una chioma più rada che oppone minore resistenza al vento. Sarebbe andata diversamente se il terreno fosse stato gelato,  probabilmente avrebbe trattenuto le zolle impedendo che si “girassero”».

È vero che la grande presenza di abete rosso nei boschi bellunesi non è ‘‘naturale’’, nel senso che è la conseguenza di abbondanti piantagioni avvenute dopo la fine della prima guerra?

«Rimboschimenti ce ne sono stati in provincia di Belluno, ma non diffusissimi. Per la gran parte i nostri boschi sono naturali. D’accordo: l’abete rosso può essere stato favorito da pratiche selviculturali, ma a parte alcune zone – penso al Nevegàl, penso ad alcune altre zone della parte bassa della provincia di Belluno, Sinistra Piave, Monte Avena, Monte Cellado – e qualche rimboschimento nella parte alta, non si tratta di aree estese, non stiamo parlando dell’altopiano di Asiago o di altre situazioni».

Perciò quel che è successo non è colpa dell’uomo, non è l’uomo che “ha costruito male” il bosco favorendo la catastrofe. 

«Secondo me non ha nessun senso colpevolizzare quello che è stato fatto cento anni fa. Hanno fatto quello che hanno fatto, con le conoscenze e le competenze di allora. Bisogna sempre tener presente che i boschi bellunesi sono i migliori del Veneto e fra i migliori dell’arco alpino. È fuori luogo giudicare sulla base delle conoscenze di oggi quello che è stato fatto in passato. Anzi: è probabile che una certa copertura forestale, frutto anche di quello che hanno fatto in quegli anni, abbia anche rallentato e attenuato gli effetti della pioggia, quindi sicuramente il bosco ha svolto il suo ruolo».

Dobbiamo accettarlo come un fatto naturale, rarissimo, ma naturale?

«Naturale, rarissimo, sì  certo, però questo non ci esime adesso dal provare a capire, provare cioè a mettere in relazione quello che è stato l’evento atmosferico, in particolare il vento, e quali sono state le formazioni boscate più vulnerabili, in maniera da poter tirare delle conclusioni. Forse! Perché poi magari non è detto che ci si riesca, perché oltre alla composizione arborea contano la morfologia, il tipo di terreno…».

Ma adesso che si fa? Si lascia che i boschi abbattuti marciscano e diventino terra? O si devono togliere le piante cadute?

«No, le piante vanno tolte. Non bisogna lasciarli per terra questi boschi abbattuti. Per mille motivi, con delle priorità che vanno definite. Probabilmente tutto non si riesce a togliere, perché ci saranno zone inaccessibili e zone che non hanno interesse economico».

Ma dobbiamo aspettarci, in futuro, aree a prato dove prima c’era bosco?

«Direi di no, dove c’era il bosco tornerà il bosco. Magari con tempi lunghi, dipende dalle zone».

C’è il rischio di diffusione di malattie arboree?

«Il rischio più importante dal punto di vista del bosco è il bostrico, un insetto che è favorito dalla presenza del legno morto. Ci possiamo aspettare degli attacchi di questo insetto, che può portare alla moria di intere aree».

Come si diceva, il bosco è importante anche per la difesa dei versanti. Piogge, valanghe, cosa possiamo aspettarci, già dal prossimo inverno?

«Secondo me la situazione è delicata, poi dipende da zona a zona, dalla natura del versante “saltato”, ma è ovvio che le piante hanno una grande funzione di difesa e quindi dove non ci sono più il problema sussiste. E penso sia anche abbastanza rilevante».

È possibile studiare delle strategie di rimboschimento dei versanti colpiti, finalizzate anche alla sicurezza?

«La sicurezza va affrontata con un pool di misure. Il rimboschimento può essere una di queste, ma probabilmente nell’emergenza ci sono cose più urgenti da fare».

Servono tanti soldi, vero?

«È ovvio che per fronteggiare questa emergenza servono risorse, anche economiche. Possiamo discutere di risorse culturali e tecniche però se non hai un sostegno economico forte… La situazione è molto delicata, già lavorare nei contesti dove sono avvenuti gli schianti è difficilissimo e pericolosissimo, poi ci sarà la contingenza del prezzo del mercato che calerà, poi tutta una serie di altri fattori. È un tema molto complesso dal punto di vista economico e servono investimenti, serve sostegno, serve aiuto un po’ su tutta la filiera forestale».

Nonostante il disastro, nelle sue risposte sembra di cogliere una vena “positiva”, di speranza. È così?

«Né pessimismo né ottimismo, adesso serve una dose di realismo, questa è la cosa più importante. Poi, se uno guarda un po’ le competenze che ci sono in materia forestale in provincia di Belluno e nel Veneto e le energie in generale, basta vedere questo prodigarsi della Protezione civile e del volontariato, sì, tutto questo ci porta a essere ottimisti come atteggiamento. La cosa pericolosa di questo evento è che ne esca una contrapposizione tra natura matrigna cattiva da una parte e gli interessi dell’uomo dall’altra parte. Non è così. Cioè: la natura, quella stessa natura che ha soffiato quel vento a 200 all’ora che ha fatto cadere le piante, è quella natura che ci fa godere dei panorami, dei tramonti, delle cascate».

E i danni agli animali che abitano il bosco?

«Pur nella tragedia, nel cataclisma che vediamo, con ripercussioni dal punto di vista umano, sociale, economico, paesaggistico idrogeologico… beh, gli studi che sono stati fatti dopo uragani del genere nelle altre parti delle Alpi mostrano che la natura ha una capacità di ripresa, per cui addirittura in certe situazioni si è visto che il bosco magari è sparito però la biodiversità, in forme diverse, aumenta. Anche il discorso degli animali del bosco: ho visto degli studi che riferivano che dopo uragani del genere sotto le piante abbattute non hanno trovato neanche un ungulato morto. Le cose, insomma, andranno viste con calma, anche perché credo che ora le emergenze siano altre ed è giusto che sia così».