È mancato nella notte, probabilmente colto da infarto, don Gabriele Bernardi, parroco di Selva di Cadore, Pescul e Colle Santa Lucia. Aveva 71 anni.
Nato a Loria (Treviso) il 2 ottobre 1948, era stato ordinato presbitero a Limana il 26 luglio 1975. Fu cappellano a Longarone (1975-1978) e a Limana (1978-1982). In seguito fu parroco ad Arabba (1983-1993) e poi a Cencenighe e San Tomaso Agordino (1993-1998). Dal 1998 al 2010 passò a Gerusalemme per svolgervi il particolare servizio di accoglienza dei pellegrini presso il Santo Sepolcro.
Dopo la tragica scomparsa di don Francesco Cassol, nella notte tra il 21 e il 22 agosto 2010, era rientrato in diocesi, per divenire parroco di Longarone, Igne, e Fortogna e Ospitale di Cadore: era il dicembre 2010. Nell’autunno del 2018, d’intesa con il Vescovo, assunse la guida delle tre parrocchie dell’Alto Agordino.
La sua ricca personalità, la sua fervida e focosa predicazione, la sua spiritualità e la sua passione pastorale lasciano un vuoto immenso non solo nelle comunità che attualmente serviva, ma in tutta la comunità diocesana.
Nel dicembre 2010 mons. Pierbattista Pizzaballa, allora custode di Terra Santa e ora Amministratore Apostolico di Gerusalemme, scriveva a mons. Andrich una lettera in cui testimoniava come a sua memoria nessuno avesse mai amato tanto il Santo Sepolcro come don Gabriele. Ora tocca a noi immaginarlo personalmente immerso nel mistero di quel Sepolcro vuoto.
Questa sera, lunedì 1° giugno, nella chiesa parrocchiale di Selva di Cadore ci sarà la recita del Rosario. La Messa esequiale sarà celebrata presso il Santuario di Santa Maria delle Grazie – all’esterno e nel rispetto delle norme vigenti – martedì 2 giugno, alle ore 15.00. Al termine la salma di don Gabriele proseguirà per la sepoltura a Loria (Treviso), suo paese di origine.
PARLARE DI CIÒ CHE SI AMA
Segnalata da don Fabiano Del Favero, riprendiamo la riflessione che don Gabriele aveva preparato per le parrocchie del Poi per le feste pasquali: «Dice molto del suo sguardo e della sua fede, da uomo e credente, prima ancora che da prete», commenta don Fabiano.
Carissimi,
il vostro parroco mi ha pregato di raccontarvi qualche cosa del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Parlare di ciò che si ama è molto più difficile che parlare di ciò che si odia o che non interessa. Si ha l’impressione di sciupare ciò che ci sta a cuore.
Vi posso dire che quando una persona arriva alla Basilica del Santo Sepolcro, che gli ortodossi chiamano Basilica della Risurrezione, sente di “essere arrivato”. In quel luogo rimasto vuoto, dove Gesù è stato deposto, vicino al Calvario (30 metri) dove Gesù è stato crocifisso, tutti vogliono arrivare. Quanti sacrifici, quanti viaggi, quante guerre, quante preghiere, lungo i duemila anni di storia del cristianesimo, per arrivare lì, e quante lotte per la volontà empia di volersi appropriare di quel luogo. Al Santo Sepolcro grazie alle divisioni tra le varie comunità, Cattolici, Ortodossi, Armeni, Etiopi, si prega giorno e notte, per non perdere il diritto di pregare e di celebrare. Ricordiamo le crociate, i milioni di pellegrini, i grandi appuntamenti della storia, le lacrime versate.
Ho visto tante persone in pianto all’arrivo al Santo Sepolcro.
Un uomo mi ha confidato che aveva fatto un mutuo per venire a Gerusalemme.
Arrivare a Gerusalemme è sentire di aver raggiunto la propria madre, e nel sepolcro vuoto si intravvede il grembo nel quale si genera la vita. Il Calvario ci ricorda i dolori del parto, il prezzo dell’amore, il Sepolcro vuoto ci parla della vita “che se ne è andata”. Non è qui! Se non è qui vuol dire che è vivo, che è altrove. Dove?
Ho avuto la fortuna di vivere al Santo Sepolcro per più di un decennio. Posso testimoniare che quando uno lascia il Santo Sepolcro, che io ho lasciato per obbedienza, ma lo stesso soffro di averlo abbandonato, non sa più dove andare per dare pienezza alla sua ricerca.
Anche nella distrazione più grande è difficile dimenticare Gerusalemme con il suo Sepolcro vuoto di Cristo.
Ricordo quanto tempo passato a guardare quel sepolcro e a ripetergli: “Che sepolcro sei, se hai perso il morto, e non perché te l’hanno rubato, ma perché è vivo. Sei proprio un sepolcro fallito.” E quando le varie comunità presenti al Santo Sepolcro nelle loro celebrazioni facevano processionalmente tre giri attorno a lui, io gli dicevo: “Vedi, ti stanno prendendo in giro”.
Ma un Sepolcro che non riesce a trattenere la morte, e nemmeno la vita, ti parla di risurrezione. Questa è la sua grandezza, la sua misteriosità.
Penso al Venerdì Santo sera, alla sepoltura del corpo di Gesù. Penso al tragico grande silenzio del Sabato Santo, e poi la notte. Dentro a quella notte, la domenica di Pasqua. Chi lo cerca morto trova il vuoto di un sepolcro. Il “girare” le spalle al Sepolcro è la condizione per vedere Gesù, per incontrarlo, per sentire la sua voce. Andare, guardare, vedere colui che non è lì e credere per mettersi nella condizione di incontrarlo.
Ripeto spesso in questi giorni, dimenticando tutto, o lasciando perdere tutto: “Ho bisogno di te, Signore, ho bisogno di ritrovarti, per questo ho bisogno di cercarti, e lo desidero, lo voglio”.
Quanto il sepolcro vuoto ha nutrito la mia fede nel risorto!
Alle mie chiese vuote chiedo la stessa cosa. E non parlo solo delle mie chiese di pietra.
E lui mi dice: “Devo andare al Padre”, “andate in Galilea, lì mi incontrerete”.
Andare in Galilea aspettando di incontrarlo, pensandolo al Padre. La Galilea non è soltanto la “Galilea delle genti” (terra pagana), ma la terra dove ci ha chiamati, dove l’abbiamo incontrato, conosciuto, abbiamo imparato a lasciarci condurre, a seguirlo, ad amarlo, a servirlo.
Non cercarlo tra i morti perché è vivo, credere che non è qui perché è risorto.
La morte che mi dice che è vivo, la sua assenza che mi parla di risurrezione. “Nessuno può vedere Dio e restare in vita”! Ecco perché mi ritrovo spesso a ripetere: “quando vieni”?