A cura di don Sandro De Gasperi (24ª domenica del tempo ordinario - anno C)

Ritrovati per sempre

È Dio il modello dell’amore che siamo chiamati a fare nostro: un amore che lascia liberi, ma che non si rassegna mai

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Raccontare una storia è uno dei gesti più antichi dell’umanità e uno dei più ricchi di significato: attraverso il racconto, veicoliamo una visione del mondo e codici di comportamento, trasmettiamo il senso che, faticosamente, generazione dopo generazione, siamo riusciti a scovare tra le pieghe dell’esistenza. Nel racconto ci immedesimiamo, ci lasciamo coinvolgere con il cuore e la mente, ci emozioniamo.

Gesù sceglie proprio il racconto per tratteggiare l’identità di Dio, il suo modo di interagire con l’uomo, di entrare in dialogo con la sua creatura. E non è semplicemente una narrazione che ci scivola nella mente: le parabole ci obbligano a prendere una posizione, ci spiazzano, ci aprono alla novità sempre nuova del Vangelo che ci viene donato.

Una pecora perduta, una dracma smarrita, le vicende burrascose di una famiglia si intrecciano con la vicenda biografica di san Paolo, rapidamente ripercorsa nella lettera a Timoteo, e con l’intensa preghiera di Mosè, che intercede per il suo popolo. Siamo messi di fronte ad una paura radicale della nostra vita, quella di perdere: perdere la purezza di una religione a causa di una setta – nel caso di Paolo –, perdere un capo di bestiame o una moneta che costituiscono il nostro sostentamento, perdere una relazione vitale profondissima, che ci da vita, grazie alla quale esistiamo.

Possiamo rischiare di perdere il posto che abbiamo difeso con sacrificio e tenace senso del dovere, possiamo perdere noi stessi tra i piaceri di questo mondo. Il male, il peccato, l’idolatria minacciano sempre la genuinità dei nostri rapporti umani, della bellezza che possono veicolare, della vita che possono comunicare, a volte così radicalmente da mettere a rischio il cammino percorso. Dio non ci lascia soli, nei tortuosi percorsi su cui si snoda la nostra vita, costellata di tanti desideri, a volte ferita e delusa: ci viene incontro.

Come il pastore, che va a cercare la pecorella perduta; come la saggia donna, che con buona lena si mette a spazzare la casa; come il padre, che attende il ritorno dei figli – di tutti e due! – con amore intenso. Dio, in Gesù Cristo, raggiunge la nostra perdita più profonda, la morte, il luogo dove cessano tutti i rumori che ci salvavano dalla nostra piccolezza: e la attraversa, vittorioso, fino alla Risurrezione. Viene disinnescata la nostra paura di perdere per amore, di vedere la gratuità che sorge nelle nostre vite e nelle nostre relazioni, di vivere il bilancio sempre in perdita dell’amore autentico e libero.

È Dio il modello dell’amore che siamo chiamati a fare nostro: un amore che lascia liberi, ma che non si rassegna mai. Un amore che ci lascia andare, ma che ci aspetta. Un amore che ci fa crescere, non evitandoci cadute e sbagli, ma preparando la festa del nostro ritorno. Siamo restituiti, dalla Parola di questa domenica, alla nostra identità più profonda, che è quella di essere mendicanti di amore che danno quello che ricevono, che moltiplicano le briciole d’amore che li vivificano: la preghiera di Mosè incarna bene l’atteggiamento di un cuore plasmato dalla vicinanza con Dio, di un cuore che sa rinnovare la promessa e che sa stimolare la misericordia.

È nutrendosi della passione di Dio per il suo popolo che Mosè può ricordargli la storia che hanno vissuto insieme, del cammino che hanno percorso: è nutrendosi dell’amore che Mosè può rinnovare l’amore, intensificarlo, rimetterlo in gioco. A rischio di perdere: ma solo perdendo, la vita trionfa. Solo perdendo, siamo uomini e donne di fede autentica e profonda. Solo perdendo, capiamo qualcosa di quel Dio che Gesù ha raccontato con tre semplici storie: quella di una pecora, quella di una moneta, quella di due figli. Perduti. Ritrovati per sempre.