«Gesù alitò su di loro». Un gesto che noi abitualmente non facciamo, o che facciamo soltanto per uno scherzo affettuoso. Il soffio è segno di presenza e di vita, anche se non lo si vede o non lo si tocca.
Certo che è davvero fragile la nostra vita: fragile al punto da essere appesa ad un respiro. Di solito non ci facciamo caso, avvolti come siamo dalla frenesia dei nostri giorni: eppure basta che il nostro respiro si affanni un po’ perché scopriamo quanto siamo precari. Lo dice anche il salmo: «Se togli loro il respiro muoiono, e ritornano nella loro polvere» (Salmo 103).
1. Gesù risorto «soffiò su di loro» per dire ai suoi: sono qui, e sono vivo. Anche questa, o soprattutto questa è la pentecoste e il suo significato per noi credenti. Avvertire che la resurrezione di Cristo passa a noi, alle nostre persone e alle nostre istituzioni attraverso un soffio eterno che è il dono dello Spirito Santo.
I primi ad avvertire questo passaggio furono appunto gli apostoli e la folla radunata a Gerusalemme. Per gli ebrei, “fare Pentecoste” significava celebrare il dono della legge data da Mosè. Era la costituzione del popolo ebraico, la magna charta della sua identità e del suo posto nella storia. Avere una legge era la sicurezza che essa proveniva da Dio stesso, e nessuno è così garante come la persona del Signore.
2. La Pentecoste narrata dagli Atti degli apostoli è descritta e interpretata come la festa della nuova legge, scritta con il sangue del crocifisso. I segni che accompagnano l’evento pentecostale – il vento e il fuoco – riproducono le manifestazioni di Dio nell’Antico Testamento.
Vogliamo sottolineare ancora una volta quale capovolgimento, nel giro di pochi giorni, era avvenuto nel cuore dei discepoli. Prima Gerusalemme poteva apparire la città nemica che aveva ucciso il loro Maestro; dopo era la grande piazza su cui esporsi ed incontrare gli uomini. Prima essi si sentivano dalla parte degli sconfitti; dopo la discesa dello Spirito proclamavano la vittoria più grande del mondo, quella sulla morte. La comunità credente ne prende atto come di qualcosa che la unifica, che la rende universale.
La Pasqua, finalmente, poteva dirsi completa; la Pasqua non rimaneva chiusa in un circolo ristretto, ma si espandeva, diventava vangelo, faceva nuovi discepoli. Il cammino della Chiesa era inaugurato, l’avventura della missione si concretizzava.
3. Dobbiamo fare spazio a tutti questi segnali, così come lo Spirito Santo ha cercato il suo spazio nel cuore degli apostoli e li ha trasformati in annunciatori del Cristo. Sono i segnali del nuovo, perché dove c’è Dio nella sua pienezza, c’è sempre la novità. Ce lo dice vistosamente la stagione primaverile che continua a stupire per le sue sorprese, dopo la dura quaresima dell’isolamento e, quasi, dell’inerzia causata dalla pandemia. Tutto è nuovo, anche se già visto; tutto è bello, anche se già documentato. In maniera impercettibile, sentiamo sgorgare un grazie fanciullesco che confina con la sorpresa.
Ogni tanto, quando un evento sportivo scatena il tifo e salda tra loro tanti cuori, si è contenti, rumorosamente contenti di appartenere al club dei vincitori, dei campioni di turno.
Lo stesso grazie che si modula oggi scoprendo di appartenere alla Chiesa. Siamo contenti di essere Chiesa.
Sull’onda della gratitudine espressa nell’ultima riga, anche noi ringraziamo mons. Renato De Vido, che ha accettato di rendere pubbliche le riflessioni preparate per le sue comunità parrocchiali dell’Oltrepiave, accompagnandoci nei tempi di Quaresima e di Pasqua. L’iniziativa era nata a inizio marzo per offrire uno spunto sulla Parola di Dio della domenica durante il lockdown. Tuttavia, visti i significativi accessi, continuerà. Da domenica 7 giugno il testimone passerà a don Paolino Rossini, parroco di Santo Stefano di Cadore, Costalissoio e Campolongo.