Altopiano pietroso di montagna; la nebbia e fitta e minaccia imminente temporale; sulla via del ritorno, la stanchezza di fa sentire e i piedi e le gambe cominciano a far male; una zona un po’ remota in cui anche il campo di rete – senza cui adesso non si può più vivere – non permette di connettersi; è forte l’incertezza, anche perché il tracciato, fra la distesa di sassi, non è più così chiaro; chi è andato avanti chiama, ma è solo voce di una sagoma che si confonde. All’improvviso, ecco appare, con sollievo, un mucchio di pietre affastellate – un “ometto”, si dice dalle nostre parti -, e subito dopo, lì nel confuso orizzonte, un palo solitario: è il segnale, con un cartello, un numero, con una freccia che indica il sentiero, che conferma la strada, che conduce a alla direzione per scendere da lì e tornare a casa.
Sembra una parabolina da quattro soldi ma è la possibile realtà di chi – tanti, fra cui chi scrive – frequenta la montagna e la gusta, con passione, provando anche i rischi e le insidie che gli straordinari scenari alpestri donano a vi chi si avventura. Ma forse è anche qualcosa in più. È rappresentazione – o per meglio dire, metafora – della nostra stessa vita che, alle volte, scendendo dalle (rare) vette della gioia e della luce, è costretta a passare per altre lande, dove la direzione non è più certa, la paura di perdersi si fa sentire, i punti di riferimento mancano. E si cerca la via di casa.
La liturgia in questa seconda domenica del tempo ordinario – terminata la festa, tornati al lavoro – ci proietta allora nell’ordinaria fatica di trovare in questa nostra esistenza il sentiero, spesso non certo, che orienta il nostro andare. E l’indice puntato di Giovanni che – immaginiamo – si alza nella scena descritta dal vangelo, ci aiuta, perché indica con certezza un punto verso cui fissare lo sguardo. Non è un palo, è una persona. È l’incontro col Risorto, unico per ciascuno, che parte sempre dalla nostra storia: non risolve la fatica, non cammina al posto nostro; è sempre promessa di sorprese interessanti, è fiducia che ci conduce alla nostra vera casa: «Venite e vedrete».
Il giovane Samuele era frequentatore assiduo del Tempio, era pio e devoto al punto giusto, dormiva all’ombra dell’Arca, ma non aveva mai sentito davvero la voce di Dio; è arrivata, inattesa, senza merito, con tenerezza, al momento giusto. Da quel momento – dice il racconto celeberrimo – non «lasciò andare a vuoto una sola delle sue parole». Anche a noi non capiti di “frequentare il tempio” – non solo la chiesa… ben inteso, molto di più: il nostro stesso corpo – e perdere di vista la Presenza che vi abita. Non ci sfugga la gioia di sentirci chiamati davvero per nome. Una chiamata che dischiude un mondo nuovo. Dio è profondità di senso, non tampone di buchi; Dio è ricchezza di vita vera, non anestetico di frustrazioni; Dio è pienezza, non sempre vastità; Dio è Parola penetrante e sincera, amante e vera; Dio è verbo fatto carne: Gesù, il Messia.
Sul sentiero di ogni giorno egli ci aspetta e ci cerca… perché anche noi lo possiamo trovare e cercare ancora. Fino al ritorno a casa.