Isaia 52,7-10; Sal 97 (98); Ebrei 1,1-6; Giovanni 1,1-18
Siamo al termine di un giorno di luce che la Liturgia ha voluto far iniziare dalla notte che lo ha preceduto. Siamo stati svegliati, come i pastori di Betlemme, a motivo di “una grande gioia”. Isaia nella prima lettura ci rappresenta, quasi anticipandola, questa scena: si tratta del giungere di un «messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza». Avremmo poi dovuto destarci e metterci in cammino come i pastori che «dicevano l’un l’altro: “Andiamo dunque fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere».
Straordinaria questa scena dove ci si conduce l’un l’altro, incoraggiandoci a vicenda: “Su, andiamo!”.
Ma è proprio così il nostro venire qui a celebrare il Natale? È possibile disperdere la gioia degli inizi, dimenticarla tra le nostre abitudini a subire e, forse, a sopportare la vita, che è sempre un dono ricevuto, inter-scambiato e donato.
Il quarto evangelista non ci fa dimenticare questa possibilità di lasciar andare o di far scivolare via l’annuncio iniziale: «Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne tra i suoi, e i suoi non l’hanno accolto».
Mi hanno colpito queste parole che riporto da un autore contemporaneo: «La parola di Gesù è focalizzata a liberare la vita da ogni peso sacrificale, compreso quello religioso. Non si tratta di mortificare la vita […] ma di riempire la vita di vita. […] “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza (Gv 10,10)» (Massimo Recalcati).
Per questo è venuto nel mondo il Figlio del Padre. Si racconta così di Dio nella parola definitiva rivelata a Betlemme a dei pastori.
È efficace questa immagine che la seconda lettura di oggi e il prologo di Giovanni ci mettono dinnanzi a contemplare: il Figlio.
Questa immagine è inscritta in tutte le fibre della nostra carne. La nostra vicenda umana è di essere figli: davvero tutti!
All’inizio della lettera agli Ebrei e nel Prologo di Giovanni è descritto questo rapporto intimo, incancellabile, generativo.
Il figlio parla del proprio padre con tutto sé stesso, perché da lui è generato: «Dio […] in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio». Più oltre è immaginato Dio che esprime se stesso verso il proprio figlio: «Tu sei mio Figlio, oggi ti ho generato».
Nel Prologo di Giovanni siamo portati dalla parte del Figlio, ad identificarci in lui, a trovare la nostra verità su di lui: «Noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità».
Queste parole della Scrittura non possono rimanere solo scritte, altrimenti sarebbero morte: esse chiedono di essere restituite alla vita. Potremmo dire che la celebrazione di oggi ci conduce ad accogliere queste parole che diventano vita, come è avvenuto per Maria, per Giuseppe nel loro silenzio di fiducia; come poi è avvenuto ai pastori nel loro andare – l’un l’altro – a Betlemme.
C’è una parola che più ancora ci chiede di diventare viva. Essa ci dà la misura del mistero che è affidato anche alle nostre parole, alla nostra vita. L’abbiamo ascoltata alla fine del Vangelo di oggi:
«Dio nessuno l’ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato».
Non sono parole difficili, impossibili. Tutti noi comprendiamo che la vita scaturisce da un grembo che ce l’ha custodita, donata, nutrita, abbellita.
Dio che nessuno ha mai visto genera la nostra vita!
E, allora davvero, come dice Isaia: «Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo».