1Cor 2,10b-16; Sal 144; Lc 4,31-37
Ieri eravamo a Nazareth. Siamo stati avvertiti che si trattava di un “oggi”. Anche noi ci siamo. Mai la Scrittura che passa tra le mani di Gesù è una “vecchia lettera” già letta. Corrisponde ad una contemporaneità intrigante per noi.
La citazione di Isaia fatta da Gesù è in “prima persona”. È anche la nostra persona, il nostro “io”: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione…».
La Parola di Dio prende dentro anche lo spessore della mia/nostra persona. Le è proprio -quasi naturale – compiersi nelle pieghe e nelle fessure della mia/nostra vita.
Non dimentichiamo quanto il salmo 40 ci fa pregare: «Nel rotolo del libro su di me è scritto».
Anzi la mia/nostra voce, le mie/nostre inclinazioni di tono, i sussulti del cuore, le flessioni del pensiero, la solidità delle mie/nostre azioni… tutto questo entra in quella Parola per cui la Parola di Dio si fa “oggi compiuta”. Come una profezia aperta che mi/ci coinvolge e parla nella mia/nostra vita.
È il connotato sacramentale della Parola di Dio.
Nel racconto evangelico di oggi quel “lieto annuncio” si compie. Il protagonista non è un’umanità astratta, un’ideale purissimo di vita, ma un sacramento reale, «un uomo che era posseduto da un demonio impuro». Non è possibile tralasciare questa dimensione di verità in noi e nel nostro ministero. Ecco il luogo della Parola: poveri, prigionieri, ciechi, oppressi…
Forse in questo senso l’evangelista Luca ci avverte che c’è una resistenza e un travisamento in atto che può sconfinare nel tradimento, nella divisione, nel diabolico. Qualcosa di simile l’abbiamo incontrato anche nel Vangelo di Matteo di domenica scorsa e proprio nella persona del primo dei discepoli e degli apostoli: Pietro.
Ieri questa presenza negativa era rappresentata dai nazaretani con la loro pretesa di conoscere già e di pretendere – addirittura rivendicare – un diritto.
Oggi è un rifiuto di fronte a una promessa di futuro e di vita, a una giustizia liberante, a un bene di tutti: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?».
Una novità si profila all’orizzonte: è chiamata “l’anno di grazia del Signore”.
Mi colpisce “Nazareth” non è solo quel villaggio da cui “nulla di buono può venire…” ma è anche un simbolo. Significa e rappresenta l’irruzione gratuita di Dio, la sua immissione sorprendente, graziosa, che abbellisce l’opera di creazione. Luca lo manifesta almeno due volte: con l’annuncio dell’angelo a Maria e all’inizio del capitolo 4 con l’inaugurazione del ministero di Gesù.
Penso che ci debba essere una “Nazareth” sempre attiva anche nella nostra vita, nella nostra vicenda di discepoli, nella Chiesa, anche nel ministero. È quell’inizio del “lieto annuncio” a cui sempre attingere.
C’è uno stile in cui esercitarci e da assumere con coraggio e con convinzione. Mi pare sia indicato dal racconto di oggi dopo l’ordine “severo” di Gesù con cui libera l’uomo posseduto da un demonio. L’evangelista dice «E il demonio lo gettò a terra in mezzo alla gente e uscì da lui, senza fargli alcun male». “Senza fargli alcun male”: in questo stile, oggi siamo sollecitati nel nostro servizio pastorale a far sì che si compia il “lieto annuncio”, “l’anno di grazia del Signore”.
Riconosco davvero impegnativa la dichiarazione azzardata di Paolo: «Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo». Avere il pensiero di Cristo: «Lo Spirito del Signore è su di me… mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai poveri… a proclamare l’anno di grazia del Signore».