Ap 11,19a; 12,1-6°.10ab; Sal 44; 1 Cor 15,20-27a; Lc 1,39-56
La parola di vita che ci è stata donata in questa solennità dell’Assunzione di Maria sembra capovolgere il nostro solito pensare: celebriamo l’assunzione al cielo di Maria, ma nella prima lettura e nel racconto evangelico si parla di donne che attendono la nascita di un figlio. Emerge il simbolo del partorire, del nascere, del venire alla luce, del “dare al mondo”. Così siamo portati a ripensare tutta l’esistenza umana come un “venire alla luce”, una nascita. E così occorre intendere il compimento della vita. L’assunzione al cielo di Maria ci riporta al simbolo della nascita per ripensare noi stessi, la nostra e altrui vita.
Siamo nel cuore di un’estate che sembra oscillare tra l’essere venuti fuori da una situazione critica – la pandemia – e la paura che qualcosa di quanto già capitato possa ritornare.
Dovremmo riconoscere che un po’tutta la vita è così: guariti da una patologia o rialzati in piedi dopo una caduta, ma con il timore che qualcos’altro possa incombere. Con la consapevolezza, dunque, che restiamo esposti e nella possibilità ancora di correre dei rischi. Come chiamare questa condizione in cui sempre la nostra vita si svolge, fa il suo corso, porta il suo frutto?
C’è un’espressione nel Magnificat con cui Maria indica la sua situazione: di Dio dice che è il suo «salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva». Maria qui ripropone il suo stato d’animo quando l’angelo del Signore le rivela che Dio la amava e la chiamava a diventare la madre di suo figlio. Maria in quella circostanza restò turbata e manifestò la consapevolezza di non essere all’altezza di quella missione.
Per questo oggi guardiamo a Maria, perché abbiamo la necessità di ritrovare noi stessi, le motivazioni e la forza per andare avanti, per aprire il “tran-tran” di ogni giorno su un sogno più grande, per non perderci d’animo e non smarrire la fiducia.
La Chiesa fin dai primi tempi ha guardato a Maria coma alla “creazione molto buona” uscita dalle mani e dal cuore di Dio creatore. La Chiesa ha puntato il suo sguardo di fede sulla madre di Gesù per poter intravedere anche la meta che attende ogni vivente: tutto di noi, tutta la nostra umanità che Gesù ha raccolto, aggiustato, sanato, rimesso in piedi, risuscitato, sarà assunta in Dio.
È commovente l’incontro tra Maria ed Elisabetta. In loro due è convocata tutta l’umanità, tutti i figli di Eva. In quell’abbraccio di accoglienza vicendevole, di aiuto reciproco, di condivisione dei sentimenti, Elisabetta definisce Maria “beata”, perché «ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto». Maria è «lo spazio vitale donato dalla terra al cielo» (E. B.). Maria rappresenta la “terra promessa” a cui tutti siamo chiamati per amore e gratuitamente.
Vi propongo il pensiero di un autore contemporaneo che guarda a Maria come al segno umano più grande di una “speranza per tutti”: «Noi amiamo questa nostra terra, eppure essa ci sta stretta; ci preoccupiamo del nostro corpo, eppure sentiamo di essere più grandi della nostra fisicità; lottiamo nel tempo, eppure percepiamo che la nostra verità supera il tempo; godiamo dell’amicizia e dell’amore, eppure ne avvertiamo i limiti e ne temiamo la caducità. Forse è proprio di questa possibilità di “pensare in grande” che è pegno per noi un’umile donna di Nazareth, divenuta, per dono di Dio, Madre del Signore, terra del cielo».
Oggi celebriamo una solennità, specchio della Pasqua, che proclama un annuncio di risurrezione che tocca il nostro corpo. Il corpo è un grande dono che abbiamo per vivere e, dunque, per entrate in alleanza con Dio, in amicizia con Lui . e in fraternità tra di noi. Sì, è la carne stessa della terra che, trasfigurata, diviene eucaristia, ringraziamento, “abbraccio della terra con il cielo”.
Maria ha cantato proprio questo nel suo Magnificat.