Es 12,1-8.11-14; Sal 115 (116); 1 Cor 11,23-26; Gv 13,1-15
«Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga» (1Cor 11,26).
Non è tanto facile per noi “annunciare la morte”. Non ci è facile farlo per nessuna morte, tanto più lì dove ci sono legami d’amore e affetti cari.
In questa sera della Cena del Signore, tutto si complica. Il capitolo 13 del quarto Vangelo, oltre la narrazione appena proclamata, ha uno sviluppo su cui ci sentiamo feriti, smarriti, lacerati interiormente, sfiduciati. Gesù stesso ci scombina: «In verità, in verità io vi dico: uno di voi mi tradirà» (Gv 13,21b). Noi ben sappiamo che con un tradimento tutto precipita. Per questo l’evangelista dichiara: «Ed era notte» (Gv 13,30b).
Poco dopo Pietro si espone con Gesù, ignorando le conseguenze del voler bene. Gli confida: «Darò la mia vita per te!». Ma Gesù lo riporta nella verità dei fatti, negli intrighi del vivere, nell’oscurità di quella notte e gli svela che poco dopo l’avrebbe rinnegato.
Tra questi due momenti l’evangelista colloca la rivelazione più alta di Gesù: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,34).
Ecco dove ci è difficile «annunciare la morte del Signore, finché egli venga».
La morte, dunque, per Gesù centra con la vita. Il racconto della Cena, di cui facciamo memoria stasera, ci rivela la morte di Gesù come vero amore, anzi quello più grande: «Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1b).
Gesù ha potuto raccogliere la sua breve vita attorno a questo amore “sino alla fine”. È possibile ricomprendere così tutto quanto egli ha vissuto a partire da quell’ “eccomi” di Maria per cui lei lo diede alla luce. È così anche di quanto non conosciamo e non è stato raccontato di circa trent’anni della sua vicenda di bambino, di adolescente, di giovane e di adulto.
Da Gesù comprendiamo che l’amore è come una paziente iniziazione che matura lungo tutta la vita. Non si tratta di grandi parole, di singoli gesti, di una serie di eroismi. L’amore è dentro la vita, quella realmente vissuta. La attraversa tutta quanta anche il buio del tradimento e del rinnegamento. L’amore, poi, fa centrare la morte con la vita, anzi ribalta la vita in morte e la morte in vita.
Noi siamo qui raccolti nella Cena del Signore per avere parte con lui, così come Gesù propone a Pietro: «Se non ti laverò, non avrai parte con me» (Gv 13,8b).
Quel lasciarsi lavare i piedi da lui è lasciare che sia Lui a portare a compimento l’amore in noi.
Gesù con il suo gesto e le sue parole: «Io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi», ci invita a rimanere nel suo amore. Siamo tutti discepoli di tale amore, non “signori” e “maestri”.
Se diventiamo noi gestori di amore siamo ancora in quel Pietro che dichiara: «Signore, tu lavi i piedi a me? […] Tu non mi laverai i piedi in eterno!»; o in quel Pietro che promette: «Darò la mia vita per te!». Alla Cena del Signore siamo invitati per imparare l’amore, per riceverlo, per essere convertiti ad esso.
Mi chiedo che cosa significhi e comporti l’alternativa che ci propone Gesù: «Perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,15). Immagino che il Signore abbia proposto ai suoi discepoli, a Pietro, a tutti coloro che lo attendono, a noi oggi, di rimanere nell’umiltà e nella verità del suo vivere d’amore, di perseverare a raccontare e rappresentare il suo voler bene, a versare e servire il suo Vangelo, a lasciare che sia Lui, in questa storia, a “completare” l’amore: «Annunciate la morte del Signore, finché egli venga», da discepoli e non da “maestri” e “signori”.