Is 61,1-3a.6a.8b-9; Sal 88 (89); Ap 1,5-8; Lc 4,16-21
Nella preghiera di Colletta possiamo cogliere una domanda sempre aperta a cui è bene ritornare in momenti particolarmente significativi: chi siamo? Abbiamo pregato nella consapevolezza di fede che il Padre ha consacrato il Figlio unigenito con l’«unzione dello Spirito Santo». Ed ecco una sorprendente risposta alla nostra domanda: «resi partecipi della sua consacrazione», concedi a noi «di essere testimoni nel mondo della sua opera di salvezza».
Isaia, dunque, ha detto anche di noi, di ciascuno di noi: «Lo spirito del signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi […] a promulgare l’anno di grazia del Signore».
L’olio misto a profumo, che tra poco benediremo e santificheremo, racconta di noi. Siamo qui radunati in quanto Popolo santo di Dio e siamo consacrati per spandere il profumo di questo crisma già ricevuto «che fa splendere di gioia il nostro volto». La benedizione che ogni anno avviene ci ricorda che Dio non smetterà di consacrare con la sua unzione d’amore l’umanità, non verrà meno nell’effonderle questo olio di esultanza, di fasciare i cuori spezzati, di portare a compimento tutto il bene che ha promesso e che ci ha manifestato in Cristo Gesù «dal cui santo nome è chiamato crisma l’olio che consacra i sacerdoti, i re, i profeti, i martiri», come diremo nella preghiera di benedizione: Gesù Cristo, «il testimone fedele, il primogenito dei morti» (Ap 1,5).
Ed ecco ancora la domanda – chi siamo? – dal momento che la nostra vita ci appare tanto fragile e spezzata e l’umanità di oggi così profondamente ferita.
Potremmo riconoscerci nella vicenda di Pietro, così come l’ha raccontata l’evangelista Luca nel suo racconto della Passione, ascoltato nella Domenica delle Palme.
Gesù era con i suoi discepoli, compreso chi l’avrebbe tradito, chi l’avrebbe rinnegato e chi poco dopo sarebbe fuggito. Rivolto a Simon Pietro ha detto: «Simone, Simone, ecco: Satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli». La risposta di Pietro la conosciamo e si riferisce a tante delle nostre esperienze: «Signore, con te sono pronto ad andare anche in prigione e alla morte». In realtà qualche ora dopo, Pietro ha ceduto rinchiuso nelle sue paure fino a fingere di non conoscere Gesù. L’evangelista narra: «Allora il Signore si voltò e fissò lo sguardo su Pietro, e Pietro si ricordò della parola che il Signore gli aveva detto: “Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte”. E, uscito fuori, pianse amaramente».
Ecco “dove siamo”: in quel rivolgersi di Gesù che fissa il suo sguardo su Pietro, sguardo di un amore sincero e patito che raccoglie le nostre paure, i nostri tentennamenti, le nostre cadute, il nostro gareggiare su chi sia il più grande, il nostro peccato; sguardo di colui che si mette accanto e sta in mezzo a noi «come colui che serve».
L’unzione di cui parla il profeta Isaia e l’unzione con cui Gesù ha dato inizio al suo servizio d’amore per vincere il male e tutte le sue molteplici manifestazioni, è l’unzione con cui sempre nuovamente appare sul nostro volto la sua luce gioiosa, in una continua nostra unzione: «Ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli».
C’è una consacrazione dell’amore e all’amore che deve avvenire ogni giorno e deve ancora compiersi. È la consacrazione nella “vita cristiana”: una vita che non può realizzarsi senza il Cristo, senza la sua unzione. Per questo a Nazareth Gesù ha cominciato a dire a tutti coloro che l’ascoltavano: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».
In questa celebrazione particolarmente il presbiterio diocesano è invitato a rinnovare le promesse «a suo tempo fatte davanti al vescovo e al popolo santo di Dio», come recita il rito che fra poco faremo. Mi colpisce in particolare la formulazione della seconda domanda, dove la modalità con cui unirsi e conformarsi al Signore Gesù è definita “intima” e comporta il rinunciare a se stessi per rinnovare il proprio impegno che è verso la Chiesa. Senza la Chiesa il nostro ministero si svuota. La Chiesa è il grande dono di essere ancora amati da Cristo. E il nostro ministero in essa è possibile se “spinto dall’amore” e “assunto con gioia”.
Questa promessa, da cui ogni giorno ripartire, è già diventata preghiera di Cristo. Occorre che sempre nuovamente vi ritorniamo per chiederci se la nostra vita di presbiterio è vita cristiana, è vita evangelica. Ci affidiamo alla preghiera, all’unzione e all’affetto di tutti voi, fratelli e sorelle.